Aveva ragione, Bo Diddley, quando cantava che non puoi giudicare un libro dalla copertina. Quella di You’re Never Alone With A Schizophrenic, il 4° album solista di Ian Hunter che arrivò nei negozi a fine marzo del 1979, non è proprio fra le più invitanti, ma ad attirare l’attenzione ci pensa quel titolo ironico e beffardo, “con uno schizofrenico non sei mai solo”, rubato a una scritta che Mick Ronson aveva letto un giorno sui muri del gabinetto di un locale newyorkese. Ad Hunter piacque così tanto, quella frase, da suggerirgli uno scambio alla pari con l’amico: se gli avesse permesso di usarla, la sua firma sarebbe apparsa su Just Another Night, il pezzo iniziale del nuovo disco (e ci avrebbe guadagnato delle royalty).

Non ci volle nulla perché si mettessero d’accordo, Ian e Mick, (per poco tempo) compagni di band nei Mott The Hoople e pupilli di David Bowie che aveva affidato a Ronson la guida dei suoi Spiders From Mars regalando ai Mott il loro più grande hit (All The Young Dudes, 1972). Erano trascorsi 6 anni, da allora, e i 2 nel frattempo avevano continuato a frequentarsi anche dopo lo scioglimento della band. Insieme avevano prodotto il 1° album solista di Hunter; con Felix Pappalardi e Corky Laing dei Mountain aveva registrato delle Secret Sessions emerse in pubblico solo nel 1999; con lo stesso Laing e con John Cale, l’ex Velvet Underground, erano stati anche protagonisti in studio di altre sedute all’insegna della più pura improvvisazione. Erano 2 ex ragazzi proletari e di provincia, diversi e complementari. Hunter un tipo tosto, spiccio e intuitivo per cui ancora oggi, a 83 anni, ogni occasione è buona per salire su un palco a suonare il rock and roll; Ronson (morto prematuramente nel 1993) timido e introverso nella vita privata, un chitarrista con i fiocchi che sapeva suonare anche il violoncello, eccelleva al pianoforte e conosceva a fondo la teoria musicale.

Ian Hunter e Mick Ronson, 1979

È lui, nel 1978, a spronare il vecchio amico a rimettersi in carreggiata dopo un periodo di dubbi, ripensamenti e flop commerciali, approfittando di un nuovo contratto discografico offerto dalla Chrysalis dopo che la coppia ha prodotto il 2° album dei Generation X di Billy Idol, Valley Of The Dolls, entrando in sintonia con la musica che gira in quel momento. A ottobre si recano ai Wessex Sound Studios di Highbury, a Londra, per registrare con Bill Price, l’ex fonico dei Mott e dei Clash; Clive Bunker, l’ex batterista dei Jethro Tull e Glen Matlock, bassista dei Sex Pistols e figura di primo piano del punk, che in Ian e nel suo vecchio gruppo riconosce dei padri ispiratori. 3 o 4 giorni di lavoro sono sufficienti a capire che le canzoni, l’ambiente e la band non sono quelli giusti.

Ronson suggerisce a Hunter di ricominciare da capo, il manager lo invita a tornare a New York e lì, nella metropoli frenetica, eccitante, romantica e pericolosa cantata dai Mink DeVille, da Elliot Murphy e da Garland Jeffreys prende forma il nuovo album: 1 disco dal sound melodico e potente, squadrato e muscoloso, fondato su un piccolo Wall of Sound forgiato ai Power Station Studios di Manhattan fino a quel momento presidio della disco music e degli Chic, con il supporto fondamentale e la firma riconoscibile di 3 membri della E Street Band di Bruce Springsteen, liberi da impegni prima di tuffarsi nella registrazione di The River. Il pianoforte e i synth di Roy Bittan modellano Schizophrenic quanto il basso di stampo soul di Garry Tallent e la batteria tonante di Max Weinberg: il “Professor” ci spruzza un po’ di quel suo tipico lirismo epico e classicheggiante, “Mighty Max” un drumming esplosivo amplificato con sapienza dal giovane fonico Bob Clearmountain (che fa le prove per diventare in seguito un’autentica leggenda del sound engineering).

Non basterebbe, non ci fossero le canzoni, ma quelle portate in studio da Hunter sono quasi tutte di classe A, sistemate in 2 facciate dalla doppia personalità schizofrenica in una sapiente alternanza fra ballate e pezzi rock che da quel momento diventeranno in gran parte capisaldi del suo repertorio concertistico. Just Another Night, che nella sua forma originaria si intitolava The Other Side Of Life e sembrava un pezzo di Springsteen ai tempi di Darkness On The Edge Of Town, ha un tiro alla Rolling Stones, una batteria implacabile, un piano martellante, i cori di Ellen Foley, Rory Dodd ed Eric Bloom dei Blue Öyster Cult e un testo autobiografico, ricordo di una notte “sull’altro lato dell’esistenza” durante il tour americano del 1973 dei Mott The Hoople che Hunter terminò in una cella a Indianapolis.

Cleveland Rocks si apre con la voce del leggendario dj radiofonico Alan Freed rubata al suo storico programma The Moondog Show: diventerà un inno che gli abitanti della metropoli dell’Ohio canteranno agli eventi sportivi ed esplode dai solchi come un urlo liberatorio, uno slogan da corteo e un sincero omaggio a una città bollata come poco cool dagli abitanti snob di New York e di Los Angeles; ma che ai Mott The Hoople aveva riservato una caldissima accoglienza dimostrando un’anima profondamente rock (2 anni prima era uscita come singolo nel Regno Unito con il titolo di England Rocks, nel 1997 diventerà una hit e la sigla di un popolare programma televisivo americano grazie alla versione dei Presidents Of The United States Of America).

E Bastard è una canzone d’amore illuso e tradito cantata e suonata a muso duro, con una bella dose di incazzatura e un’aria minacciosa, complice un riff insistente e incalzante cui contribuiscono il piano e il sintetizzatore ARP dello special guest John Cale. Le chitarre taglienti e calibratissime di Ronson (mai una nota di più, mai una nota di meno) e il suo talento d’arrangiatore e produttore fanno il resto assieme alla voce aspra e dylaniana di Hunter, perfetta anche per un gruzzolo di ballads con il cuore fremente e i nervi scoperti. Il sentimentalismo non smielato e il testo di Ships, ricordo affettuoso e nostalgico del padre scomparso, indurranno persino un romanticone pop come Barry Manilow a inciderne una fortunata versione che gli regalerà l’ultimo grande successo in classifica; mentre i tappeti di tastiere, la veemente interpretazione vocale e la linea melodica quasi gospel di Standin’ In My Light ne faranno un classico istantaneo, in linea con i gusti di Ronson («Gli piacevano i pezzi lenti e semplici», spiegherà Ian) e con un testo amaro e velenoso che senza complimenti invita il manager Tony DeFries a togliersi di torno (i manager, dirà Hunter, «desiderano coerenza e denaro. Io invece penso che la coerenza sia noiosa e che i soldi spettino a me»).

Il rocker inglese non manifesta, e forse a ragione, altrettanto affetto nei confronti di When The Daylight Comes, flashback su un incontro fugace con una groupie che rappresenta il suo tentativo dichiarato (e fallito) di scrivere un successo da classifica e in cui anche Ronson si prende il suo spazio al microfono per mettere una toppa alle sue incertezze: il ritmo danzabile è quantomeno in sintonia con il curriculum dei Power Station e con i giorni di gloria dello Studio 54; e il suo mood non meno newyorkese di quello di Wild East, ode all’East Village ancora selvaggio, drogato, fuorilegge e bohémienne di quei tempi con ruggenti e nostalgici sax da rhythm & blues anni 50; o dell’introduzione quasi fantascientifica della mistica Life After Death, che come nessun altro pezzo del disco evidenzia una matrice bowieana.

Giusto, poi, che a chiudere il disco di un “cane sciolto” come Hunter sia The Outsider, titolo provvisorio dell’Lp e colonna sonora immaginaria di un film d’avventure: la storia di un uomo in fuga dopo un omicidio con cui Ian perfeziona la sua idea di ballata power pop con un testo e una melodia che gli calzano come un guanto anche se non ha mai ucciso nessuno e con You’re Never Alone With A Schizophrenic ha piuttosto resuscitato se stesso. Gli erano bastati qualcuno che gli ridesse fiducia, un piccolo budget a disposizione, la spalla rassicurante di Ronson e bella gente intorno che non gli creasse troppi casini per ritrovare la voglia di rimboccarsi le maniche e rimettersi a lavorare sodo: ne verrà fuori il manifesto più bello, genuino e convincente di un underdog che era stato una rockstar suo malgrado ma che non aveva più bisogno di zeppe e di vestiti glitterati; un inglese che nella New York di fine 70 non si sentiva un alieno ma ritrovava lo spirito e il gusto di un rock and roll urbano, blue collar, onesto e appassionato capace di collegare in corto circuito passato e presente, Chuck Berry e Jerry Lee Lewis con David Bowie, Bruce Springsteen e i cantautori post punk della Grande Mela. Senza l’appoggio della critica inglese (campanilista come sempre, la stampa locale non lo trattò bene), senza un hit single capace di proiettarlo in alto in classifica, resterà scolpito nella pietra come il piccolo, grande testamento di un modo di vivere la musica che gli anni 80 spingeranno progressivamente in un angolo.

Ian Hunter, You’re Never Alone With A Schizophrenic, (1979, Chrysalis)