Ci ha lasciati lo scorso 2 marzo, con un vuoto difficile da colmare e una tristezza infinita. Per la mia generazione, Wayne Shorter è stato molto più di un esempio, di un idolo, di un compagno d’avventure musicali. Le sue composizioni ci hanno spalancato un mondo rivelatore della bellezza di osare, di scoprire nuove sonorità.

Dapprima in seno ai Jazz Messengers di Art Blakey, che per primo intuì le capacità compositive e di arrangiatore del sassofonista originario di Newark, nel New Jersey; poi nella rivoluzione “modale” e successivamente elettrica di Miles Davis, che lo volle al suo fianco affascinato com’era da quell’insolita voce al sax, specie al soprano, di cui è stato il maestro indiscusso; e ancora, al fianco di Joe Zawinul nella meravigliosa stagione dei Weather Report, oltre tutti i confini possibili fra generi e stili; nonché, ultimamente, con il quartetto con il quale ha approfondito le sue intuizioni melodiche e armoniche.

Wayne Shorter, in concreto, è sempre stato un passo avanti rispetto agli altri. Ricordo il giorno in cui ho fatto la conoscenza delle sue capacità: in un sabato pomeriggio del 1971, il mio amico chitarrista Carlo (con il quale avevamo formato un quartetto di ragazzotti bravini ma acerbi) arriva a casa mia con Odissey Of Iska, l’Lp inciso da Wayne per la Blue Note, esclamando: «Ascolta… è la musica che cercavamo, che abbiamo sempre sognato!». Metto il vinile sul piatto del giradischi e a travolgerci è un’onda anomala, un flusso magmatico di ritmi intrecciati, una gamma di voli solistici affascinanti e insieme inquietanti, un suono di gruppo perfetto, coeso, ispirato. I 2 batteristi, Al Mouzon e Billy Hart, distillano ritmi e controtempi che catturano subito la mia attenzione. Il contrabbasso di Ron Carter dirige le operazioni con un’autorità assoluta; il vibrafono di David Friedman è una voce, forse esotica, ma inserita alla perfezione in quel contesto sonoro; la chitarra di uno sconosciuto Gene Bertoncini è una rivelazione: per le linee melodiche e le pennellate decise che sciorina qua e là nell’esecuzione di quelle partiture così rivoluzionarie.

Ho amato fin da subito Odissey Of Iska e da allora ha continuato a farmi compagnia. Da allora ho seguito sempre con amore la musica di Wayne, le sue evoluzioni. E ho avuto il privilegio di conoscerlo di persona, quando ero responsabile del catalogo Jazz della Sony Music e nel 2006 ho seguito la pubblicazione del box antologico Forecast: Tomorrow dei Weather Report. Joe Zawinul e Wayne Shorter sono atterrati a Milano per una serie di incontri promozionali e io li ho seguiti per gran parte del loro soggiorno. Conoscevo bene Joe, che avevo già incontrato varie volte e che, in maniera paterna, mi chiamava «il mio amico austriaco» essendo anch’io di origini asburgiche (ci divertivamo a conversare in tedesco), ma non avevo mai incontrato Wayne. Una sera, a cena, abbiamo parlato delle nostre comuni passioni: la cultura e la letteratura giapponesi, il buddhismo, le filosofie orientali, il rapporto con la grande poesia di Rainer Maria Rilke e Charles Baudelaire, l’amore per Marcel Proust.

Mi sono trovato di fronte un uomo coltissimo, generoso nel condividere emozioni e impressioni. Una persona di rara modestia e squisita gentilezza che dialogava a mezza voce ponderando ogni singola parola, quasi fosse una nota da incastonare nel suo assolo. Il più bel ricordo che conservo di quella serata? Quando l’ho ringraziato per la musica che ci aveva donato e lui mi ha risposto: «Ho solo tradotto in musica le mie emozioni. Spero di esserci riuscito!». In seguito non ho più avuto occasione d’incontrarlo, sebbene in tutti questi anni io abbia assistito a decine di suoi concerti. Il mio amico Brian Blade, il batterista dell’ultimo quartetto di Wayne, ha coniato per lui una definizione che trovo perfetta: «Distilla note con la sapienza di un grande chef, che sa qual è l’ingrediente ideale per valorizzare la sua idea. E sa sempre come iniziare e come terminare il dialogo che ha intrapreso con noi accompagnatori: mai forzandoci a seguirlo pedissequamente, ma stimolandoci a fornire il nostro contributo».

Il sassofonista americano con Miles Davis

La capacità di dialogare con gli altri musicisti è sempre stato il tratto distintivo di Wayne Shorter: che si trattasse di Lee Morgan, di Freddie Hubbard o di Herbie Hancock, con cui ha stabilito un rapporto empatico; di Joe Zawinul, con il quale rimangono scolpiti nella memoria i duetti ai tempi del loro sodalizio nei Weather Report; di Miles Davis e di Joni Mitchell, cui ha fornito la propria voce per impreziosire la musica magica creata dalla cantautrice; degli Steely Dan e perfino di Pino Daniele e di Milton Nascimento, all’apparenza lontani dalla sua estetica ma in realtà compatibili con il suo suono e la sua visione musicale.

Wayne è sempre rimasto se stesso: un meraviglioso solista, subito riconoscibile, che non si è mai risparmiato nell’offrire la sua preziosa arte e la sua voce, unica e perentoria. Mi piace pensare che Joe Zawinul l’abbia accolto lassù con un grande sorriso, stretto in un abbraccio e gli abbia proposto: «Dai, suoniamo!». Riposa in pace, viaggiatore misterioso.