Sentite che cosa dice Paul Weller, a proposito di Odessey And Oracle degli Zombies: «Prima di allora non avevo mai ascoltato una musica così. Le armonie erano fantastiche, e lo erano anche le progressioni di accordi. Ha un suono molto inglese, nostalgico e malinconico. Un suono molto autunnale, non mi vengono in mente altri dischi con quel tipo di sonorità». Così, nel luglio 2010, il Modfather ribadiva alla BBC il suo amore per il 2° e ultimo album della prima fase di carriera degli Zombies, candidato al ruolo di suo Lp preferito di tutti i tempi.

Robert Plant, i R.E.M., Tom Petty, Dave Grohl e i Fleet Foxes sono fra coloro che nel tempo hanno espresso un entusiasmo analogo nei confronti di un’opera dal parto travagliato e dagli esiti commerciali inizialmente tutt’altro che straordinari. Nell’aprile 1968, in Inghilterra, non se lo filò quasi nessuno; il quintetto di St. Albans, Hertfordshire, l’aveva registrato nel mezzo di tensioni e disillusioni crescenti, mentre i suoi 45 giri mancavano il bersaglio delle classifiche, il management s’intascava gran parte dei soldi e il pubblico ai concerti diminuiva a vista d’occhio. Quando poi, esaurito il budget di 1.000 sterline la band consegnò il mix mono alla casa discografica CBS, quest’ultima insistette per averne anche una versione stereo che il tastierista Rod Argent e il bassista Chris White, unici 2 autori del gruppo, finanziarono di tasca propria con gli introiti delle loro royalties.

The Zombies: Chris White, Colin Blunstone, Rod Argent, Paul Atkinson, Hugh Grundy

Sembrava nato davvero sotto una cattiva stella, Odessey And Oracle. Anche perché Friends Of Mine e Beachwood Park, le 2 canzoni poi recuperate sull’Lp e anticipate su singolo, erano affondate senza lasciare traccia. Eppure quello è l’album che contiene Time Of The Season, un evergreen tuttora sfruttato intensivamente dalla pubblicità (in Italia una cover realizzata da uno studio di registrazione milanese accompagna attualmente in tv gli spot di una nota marca di tè con Elisabetta Canalis testimonial ) e ripreso negli anni da artisti come Dave Matthews Band, Scott Weiland (Stone Temple Pilots) e persino Pino D’Angiò, che nel 1981 ne registrò una versione “talking ” in lingua italiana intitolata Signorina includendola nel suo album più famoso, …Balla!. Insieme a She’s Not There, è la canzone degli Zombies che tutti conoscono anche se fra i 2 pezzi ci sono 4 anni di distanza e un totale cambio di scenario con il passaggio fulmineo dal bianco e nero della British Invasion e del beat al full color della psichedelìa: la floreale copertina dell’album, in questo senso, non lascia adito a dubbi.

Colin Blunstone, voce solista e frontman della band, non riusciva a cantarla come l’aveva in mente Argent, autore del pezzo, e finì quasi per rinunciarvi. Poi ci ripensò, per fortuna, perché il suo fraseggio vocale a botta e risposta è diventato un ingrediente essenziale e irrinunciabile di Time Of The Season assieme alle sue fulgide architetture corali, al riff sincopato scandito da basso, batteria e sospiri e ai 2 assoli jazz blues che lo stesso Argent improvvisò con il suo organo Hammond L-100. Fu il polistrumentista Al Kooper, che allora lavorava come produttore di staff alla Columbia americana, a insistere con il presidente dell’etichetta, Clive Davis, affinchè la pubblicasse come singolo sulla sussidiaria Date Records, che pure aveva già incamerato qualche flop con i 45 giri precedenti. Anche stavolta inizialmente non accadde nulla, ma poi – ha raccontato Argent – «un dj di Boise, in Idaho, iniziò a fare ascoltare il disco in radio e il pezzo improvvisamente cominciò a propagarsi come un incendio». Agli inizi del 1969, negli Stati Uniti, salì al N°3 della classifica di Billboard e all’1 di quella di Cashbox per poi raggiungere la vetta anche in Canada, il 2° posto in Sud Africa e la Top 20 nei Paesi Bassi e in Australia. Anche in questo caso nulla accadde in patria dove (sottolinea ancora Argent) Time Of The Season «non è mai stata una hit, ma nel tempo è diventata comunque un classico».

Ha anche il merito di richiamare l’attenzione su 1 album che è tutto meno che una raccolta di filler, un assemblaggio di riempitivi destinati a fare da corona al pezzo forte vivendo di luce riflessa. Al contrario, quel disco dal titolo curioso (con un refuso, “Odessey ” invece di “Odissey ”, dovuto a una svista del grafico anche se inizialmente il gruppo sostenne che si trattava di una scelta voluta) e nelle cui note di copertina Argent citava persino La tempesta di William Shakespeare, è un’opera omogenea, coerente e anche ambiziosa. Quasi un concept, in termini musicali, come osserva giustamente Weller; un raffinatissimo affresco di pop baroque psichedelico con influenze di jazz e di musica classica. Registrato fra il luglio e il novembre 1967 a Londra, principalmente negli studi EMI di Abbey Road ma con session supplementari agli Olympic Studios, è un Lp che prima di Revolver dei Beatles e soprattutto di Pet Sounds dei Beach Boys sarebbe stato impossibile immaginare.

Il debito nei confronti di Brian Wilson, dei Beach Boys, del loro disco più celebrato, delle loro complesse armonizzazioni vocali, è riconosciuto senza problemi da Argent ed è evidentissimo soprattutto nell’iniziale Care Of Cell 44, un’altra creazione del tastierista: una prison song bizzarramente luminosa e piena d’ottimismo, una gioiosa marcetta che mette in primo piano 1 clavicembalo, 1 mellotron e i contrappunti melodici del basso elettrico, mentre la voce di Blunstone racconta una storia singolare: quella di un uomo che invita la compagna rinchiusa in carcere a tenersi su di morale immaginando il momento ormai imminente del ricongiungimento. Ha stregato figure di culto dell’indie rock americano, come il compianto Elliott Smith e gli of Montreal. E non si fatica a capire il perché.

Subito dopo, è ancora Rod a mettere il sigillo a una ballata romantica, trasognata e profumata come A Rose For Emily, mentre il senso di malinconìa cresce in Maybe After He’s Gone, 1° pezzo a firma del bassista White che più avanti si cimenta come voce solista nella cupa Butcher’s Tale (Western Front 1914), improbabile singolo antimilitarista che rievoca la Prima guerra mondiale e con cui la CBS cercò di cavalcare l’onda della contestazione giovanile anti Vietnam: il piano fallì, anche se quella melodia scandita da 1 organo a pompa e l’introduzione ispirata alla musique concrète di Pierre Schaeffer colpivano nel segno. Viene da pensare che il Julian Cope dei primi album solisti, negli anni 80 l’abbia ascoltata con attenzione; così come in Beechwood Park si rintracciano sonorità morbide e ovattate che ricordano quelle dell’Imperial Bedroom di Elvis Costello (1982).

Umbratili e corali, aggraziate e avvolgenti, Brief Candles e Changes rivaleggiano con i momenti migliori dei Moody Blues nel contemporaneo In Search Of The Lost Chord; Hung Up On A Dream contiene altri germi di prog classicheggiante; I Want Her She Wants Me (di nuovo con il basso protagonista in chiave melodica) è più ritmata e sbarazzina, mentre This Will Be Our Year e Friends Of Mine rievocano la stagione aurea di Beatles e Kinks, ma senza scadere nella copia impersonale. Time Of The Season è il brano che chiude, dopo meno di 35 minuti, 1 disco in cui Argent domina la scena strumentale con le sue tastiere elettriche e il suo pianoforte proponendosi anche come alter ego vocale di Blunstone; mentre White, il batterista Hugh Grundy e il chitarrista Paul Atkinson (che si apprezza per alcuni arpeggi e frasi ritmiche, anche se il suo strumento resta talvolta sepolto nel missaggio) forniscono un contributo altrettanto importante ai celestiali impasti vocali che al disco conferiscono il suo sapore dominante.

Per una strana coincidenza del destino, a 50 anni esatti di distanza dall’ingresso di Time Of The Season nella classifica statunitense, nel 2019 gli Zombies sono stati accolti nella Rock and Roll Hall of Fame. Poco più di 10 anni prima, nel marzo 2008, i 4 membri sopravvissuti della band – Argent, Blunstone, White e Grundy – avevano per la prima volta riproposto integralmente dal vivo Odessey And Oracle con l’aiuto di altri musicisti fra cui il cantante e tastierista Darian Sahanaja della Brian Wilson Band, ribadendo così la loro affinità elettiva con il genio dei Beach Boys e con Pet Sounds.

Pur senza essere mai stato un best seller, anche il loro disco è diventato un classico universale stupendo persino i suoi artefici, che pur tenendosi alla larga dalla drug culture che allora alimentava la creatività di tanti loro colleghi, nel 1968 erano entrati in sintonìa con il nuovo spirito del tempo mostrando la capacità, l’immaginazione e il coraggio necessari a oltrepassare i confini e le regole non scritte della musica pop. Tempo qualche mese, e il mondo avrebbe cominciato ad accorgersene.

The Zombies, Odessey And Oracle (1968, CBS)