Sono i primi anni 70, gli Usa sono ancora impantanati in Vietnam, a casa divampano i conflitti razziali e “peace & music ” di Woodstock è già un lontano ricordo. Per questo Papa Dee Allen, Harold Brown, B.B. Dickerson, Lonnie Jordan, Charles Miller, Howard Scott e Lee Oskar, 6 afroamericani e 1 danese bianco emigrato in California, si fanno chiamare War.
«Strumenti e voci erano le nostre armi, le canzoni le nostre munizioni», spiegheranno anni dopo. «Parlavamo apertamente di razzismo, di fame, di gang, di crimini e di dispute territoriali abbracciando metaforicamente i nostri ascoltatori con un messaggio di speranza e uno spirito di fratellanza».
Messi insieme dal produttore discografico Jerry Goldstein (l’ex manager di Sly Stone che negli anni 60 aveva portato in classifica l’innocente pop/r&b di My Boyfriend’s Back delle Angels, di Hang On Sloopy dei McCoys e di I Want Candy dei Strangeloves) erano diventati famosi come gruppo di supporto di Eric Burdon, il “negro bianco ” già frontman degli Animals che in California aveva trovato una nuova anima musicale. Con lui e con il singolo Spill The Wine avevano fatto il botto e con il successivo 45 giri, Slipping Into Darkness, avevano fatto capire di poter sfornare successi anche senza il leone di Newcastle. Con The World Is A Ghetto, pubblicato nel novembre 1972, dimostrano invece che Marvin Gaye e Curtis Mayfield non erano gli unici a saper ritrarre con partecipazione, lirismo e vivida immaginazione la vita nei quartieri degradati delle metropoli americane.
Basta prendere in mano la copertina, disegnata da Howard Miller su un’idea di Oskar, per sentire l’odore della musica che si sprigionerà dai solchi: un crogiolo multiculturale che mette tutto e tutti sullo stesso piano. Perché nessuno può sperare di vivere in un castello dorato lontano dai guai; e anche una Rolls-Royce, nel ghetto, può ritrovarsi improvvisamente con una gomma a terra mentre intorno si muove un’umanità varia: gente affacciata alla finestra fra i panni stesi o in fila davanti a un’hamburgheria, borseggiatori e gruppetti di disoccupati che bighellonano per strada.
Quando in testa le idee fermentano non c’è bisogno di tanto tempo per fissarle su un nastro. «Facemmo un bel po’ di prove (a Long Beach, una delle aree di provenienza della band) prima di entrare in sala di incisione. E dunque eravamo ben preparati», ricorderà Goldstein. «Affittammo il Crystal Studio a Los Angeles chiudendo le serrature, cosicché nessuno ci danneggiasse le attrezzature e potessimo lavorare senza interruzioni. A volte le session si protrassero per 10 o 12 ore di fila». 29 giorni di lavoro ed è tutto pronto: 6 pezzi, poco meno di 44 minuti di musica scremati da una serie di interminabili jam session con dosi industriali di groove, vocalizzi soul e fitti intrecci fra una chitarra funk, un organo gospel/r&b e ritmi latini, con una bella spruzzata di jazz e di blues e quell’inusitata sezione fiati composta da un sax e da un’armonica (e ogni tanto da un flauto).
Quando la puntina si abbassa su The Cisco Kid capisci subito che tipo di viaggio ti aspetta: «Stavo salendo i gradini di casa di Howard (Scott) a Compton» racconterà Brown, il batterista, «e lo vidi seduto su un amplificatore a suonare la sua chitarra. Aveva già trovato quella linea melodica, quella frase (“The Cisco Kid was a friend of mine” ) a cui io aggiunsi un lick, un’idea ritmica». Un irresistibile stantuffo sincopato che accompagna un’ode a un eroe d’infanzia del chitarrista, il Cisco Kid dell’omonima serie televisiva western interpretata da Duncan Renaldo, che qualche tempo dopo la band incontrerà per ringraziarlo dell’ispirazione. Un’invenzione geniale, con sequenze di note diverse di strofa in strofa e quella musica di confine che ai magnifici 7 garantirà un gran seguito anche nella comunità chicana di L.A. e nelle sue border radio, a dispetto del fatto che nessuno di loro abbia una goccia di sangue messicano nelle vene (basta la promiscuità nella vita di quartiere per farsene contaminare).
Arriverà al N° 2 in classifica negli Stati Uniti (picco più alto mai raggiunto da un singolo dei War) vendendo 1.000.000 di copie solo nel giorno d’uscita, mentre fino al 7° posto si spingerà la title track in una versione ridotta a meno di 4 minuti rispetto agli oltre 10 del brano incluso nell’Lp: un delitto fermarsi a quella, perché solo l’originale si dischiude come una meravigliosa e pulsante sinfonia metropolitana, un’invocazione di pace e serenità lanciata verso il cielo stellato da chi nella città degli angeli vive con gli occhi annebbiati dallo smog, dalla stanchezza e dalle lacrime. Ci vorranno ben 36 take per catturarne lo spirito in studio, con il fluttuante wah wah della chitarra elettrica, il basso dal respiro profondo, la batteria e le percussioni che pompano il sangue nelle vene, un entusiasmante assolo di Miller al sassofono e quelle splendide voci che si rincorrono e armonizzano tra loro, dopo che a Long Beach gli abitanti del quartiere erano stati invitati ad assistere alle prove perché, come dirà il pianista e organista Jordan, «a quei ragazzi volevamo far sapere che stavamo dalla loro parte: suonavamo sotto una nuvola di smog, facevamo parte dello stesso mondo».
Un mondo che è un ghetto ma non è chiuso in se stesso: volano a 3.000 chilometri di distanza, a New Orleans, il funk creolo alla Meters di Where Was You At («Negli anni 60 andavamo spesso in tour in Texas, ed è lì che ho imparato a suonare quel backbeat della Louisiana» spiegherà Brown) e di Beetles In The Bog, che nella seconda facciata chiude il cerchio rievocando il motivo di The Cisco Kid ma su un ritmo di marcia da second line e con un canto tribale da parata nel Quartiere Francese. Sono i pezzi più brevi e concisi del disco, mentre il resto dell’Lp spalanca le porte a una completa libertà d’espressione all’insegna dell’esperanto musicale. City, Country, City (13 minuti e 18 secondi) alterna il ritmo morbido e quieto che nella prima parte accompagna l’armonica nostalgica di Oskar a un ritmo palpitante e veloce incrociando il jazz con il blues, la salsa con l’r&b, Santana con Manu Dibango e Fela Kuti, la batteria con i bongos e le congas tra assoli di sax e di organo prima di diluirsi in una ragnatela di note filamentose.
Cinematografica? Sicuro, anche perché era stata composta per la colonna sonora di The Legend Of Nigger Charlie, film Paramount («Siccome non ci davano abbastanza soldi e abbastanza credito ce la riprendemmo indietro», spiegherà Jordan al giornalista e scrittore Barry Alfonso. «La pellicola non fece un gran che, ma il nostro disco sì»). E non lo è da meno Four Cornered Room, 8 minuti e ½ di peregrinazioni fra i 4 angoli delle pareti della mente che il bassista Dickerson compose dopo aver fumato hashish per la prima volta: non a caso è lenta, liquida e ipnotica, con una sezione parlata e voci che (se il paragone non è troppo audace) sembrano stare a metà fra il gospel e i Cantori Moderni di Alessandroni quando incidevano per Ennio Morricone.
Audaci erano sicuramente loro, i War, che in questo disco davano voce più o meno consciamente alle rivendicazioni sociali e culturali della Black America dei tempi. «Qualcuno doveva assumere il ruolo dell’insegnante e del predicatore», confermerà Jordan ad Alfonso; forse perché di pelle bianca, Oskar replicherà d’altra parte che la musica per loro è sempre venuta prima del messaggio. Non è così importante: quel che importa è che, a dispetto dei giudizi tranchant dei critici più snob (su Creem il celebre Robert Christgau fustigò “le pretese jazz ” di Four Cornered Room e di City, Country, City) un album come The World Is A Ghetto schizzò in cima alle classifiche di Billboard, vendendo oltre 3.000.000 di copie e diventando il best seller assoluto del 1973 negli Usa, a dispetto del boicottaggio solitamente operato dalle radio rock nei confronti della musica nera. In quel momento, accogliendo tutta la comunità panafricana e l’umanità intera, il ghetto dei War era diventato davvero un mondo senza confini.
War, The World Is A Ghetto (1972, United Artists)