San Francisco, dove si andava in pellegrinaggio indossando un fiore tra i capelli. Il Monterey Pop Festival con Jimi Hendrix e Janis Joplin, Ravi Shankar e gli Who. Il 1°, magico incontro fra David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash. La folle furia omicida di CharlesSatanaManson.

Tutto nell’arco di 3 anni. Tutto con John Phillips, Michelle Phillips, “MamaCass Elliot e Denny Doherty nel ruolo di protagonisti, istigatori, testimoni. Con il discografico Lou Adler, nel giugno del 1967, John fu l’organizzatore del 1° grande raduno rock della storia, lanciato e promosso dall’inno hippie che proprio lui aveva scritto per Scott McKenzie: San Francisco (Be Sure To Wear Flowers In Your Hair). Qualche anno dopo, “Mama Cass” – la regina di Laurel Canyon – avrebbe fatto incontrare 2 americani e 1 inglese e contribuito a cambiare la storia del rock, dopo avere intrattenuto rapporti pericolosi con Manson prima degli omicidi TateLaBianca.

John Phillips, Michelle Phillips,“Mama” Cass Elliot, Denny Doherty

Luce e tenebre, amore e violenza, ispirazione e follia: le classiche dicotomìe che accompagnano la storia di Los Angeles e di alcuni dei suoi artisti più osannati si applicano perfettamente alla biografia dei The Mamas and the Papas. Incarnazione della California Sixties e della sua utopìa, anche se il loro sogno si sarebbe infranto in fretta e 3 dei 4 arrivavano da altrove. Phillips, il leader e autore delle canzoni (a volte con i compagni di band, spesso da solo), dal North Carolina. Doherty dal Canada e Cass da Baltimora, nel Maryland. Solo Michelle Gilliam in Phillips, cantante, attrice e modella, era nata a Long Beach e raffigurava il prototipo della Californian girl cantata dai Beach Boys: bionda, magra, trendy, con i lineamenti delicati e uno sguardo un po’ innocente e un po’ malizioso.

Nel 1966, quando uscì il loro 1° album If You Can Believe Your Eyes And Ears (in copertina i 4 che si ammucchiavano in una vasca da bagno a fianco di un water, censurato dopo la prima tiratura perché ritenuto indecente) fu subito chiaro che erano destinati a grandi cose e a conquistare il mondo. L’immagine – il colbacco e i baffi di John, i caftani di Denny, lo stile flower power di Michelle e di Cass, strabordante nel fisico e nella personalità – aiutava. Ma poi era la musica a incantare, in un periodo magico: 6 mesi dopo Highway 61 Revisited di Bob Dylan, 2 mesi dopo Rubber Soul dei Beatles. Fra le 2 stelle polari della musica popolare di quegli anni, The Mamas and the Papas (con 2 curiosi apostrofi prima delle s, nel lettering di quel 1° Lp) facevano una precisa scelta di campo. Mentre i Byrds saccheggiavano proficuamente Mr. Zimmerman elettrificando il folk da cui anche loro provenivano, i 4 affidavano alla voce maestosa, autorevole e melodiosa della Elliot una versione rétro e in stile music hall di I Call Your Name, ascoltata nell’edizione americana di With The Beatles: Cass, che notoriamente s’era presa una cotta per John Lennon, la interpretava come un omaggio sussurrando il nome del suo idolo durante l’intermezzo strumentale.

Il segnale era chiaro: anche se respiravano l’aria nuova e ne erano dei portabandiera, The Mamas and the Papas stavano a metà del guado, a cavallo tra 2 epoche. Confezionarono l’album in fretta, alla vecchia maniera, per capitalizzare il successo di 1 singolo; dividendo il programma quasi a metà fra composizioni originali e cover con cui strizzavano l’occhio non solo al pubblico giovane e alternativo ma anche al mainstream. Non inventavano nulla: in quei solchi c’erano le armonie vocali dei Beach Boys e i valori produttivi di Phil Spector (gli archi, i suoni squillanti e tintinnanti, il Wall of Sound rigorosamente in mono); il doo wop e i gruppi femminili degli anni 60; il beat e la British Invasion; i Fab Four e i Monkees. Rielaborati e trasformati in un fantastico frullato sunshine pop.

L’inizio non era stato troppo beneaugurante. Nel 1965 Go Where You Wanna Go aveva fatto immeritatamente flop prima di diventare una hit per i 5th Dimension. Eppure racchiudeva già tutte le sfumature della band: armonie gioiose e solari contrapposte a un testo piuttosto dark che parlava d’infedeltà (ispirandosi a fatti reali: la relazione di Michelle con il produttore e autore Russ Titelman). Ma poi, l’8 dicembre del 1965, era arrivata California Dreamin’, scritta dai Phillips nel 1963 mentre si trovavano a New York a vivere un inverno particolarmente triste e rigido. La incise per 1°, con le loro voci in sottofondo, il Barry McGuire di Eve Of Destruction che li segnalò a Adler, titolare della Dunhill Records. Fu quest’ultimo ad avere l’idea vincente: usare la stessa base, registrata dai leggendari session men della Wrecking Crew di Los Angeles e sovraincidervi le voci dei 4, con il purissimo timbro tenorile di Doherty nel ruolo di voce solista.

Il risultato – un’ode nostalgica alla West Coast che avrebbe fatto sognare la California a più generazioni; una sinfonia di voci interrotta da quel memorabile break di flauto del jazzista Bud Shank – è diventato il paradigma di un genere. Schizzò al N° 4 della classifica americana, mentre per agguantare il N° 1 i The Mamas and the Papas dovettero attendere 3 mesi. Ci arrivarono con il singolo successivo, Monday, Monday, un altro clamoroso evergreen: ancora con Denny voce solista, ancora con la Wrecking Crew (Hal Blaine alla batteria e alla direzione musicale, P.F. Sloan alla chitarra, Larry Knechtel alle tastiere, Joe Osborn al basso) a tessere le trame strumentali, ancora una storia di anelito e di insoddisfazione raccontata attraverso le intricate, soavi e angeliche armonizzazioni dei 4. Che per fortuna non buttarono via niente, includendo nel disco anche le splendide facciate B dei loro 45 giri. Quella di Monday, Monday, Got A Feelin’ (unico credito PhillipsDoherty) era il pezzo più delicato, più lieve e più struggente del disco: su un ritmo scandito dal finto ticchettìo di un orologio si appoggiava voluttuosa e intrisa di spleen la voce ampia e agile di Mama Cass, alle prese con un’altra storia di corna, di rimpianto e di tempo perduto.

Somebody Groovy (l’equivalente anni 60 di “cool”), utilizzata 2 volte come flip side di un 45 giri, occupa invece il versante più mosso e dinamico dell’album assieme a Straight Shooter: in entrambe, è un po’ come se i Monkees di Last Train To Clarksville incontrassero i Beatles di Day Tripper sul Sunset Boulevard, tra raffinati arrangiamenti vocali, perfetti riff beat di chitarra elettrica e un ritmo saltellante che faceva ondeggiare i corpi sul dancefloor o sui prati dei festival. Con il suo basso in stile Motown e la firma dei 2 Phillips, Hey Girl era l’unico altro pezzo originale di una band che nelle cover rispecchiava perfettamente i suoi gusti: i tardi 50 carezzevoli, svenevoli e sentimentali di Bobby Freeman e di Do You Wanna Dance che aveva stregato anche Cliff Richard (in Inghilterra) e i Beach Boys; il jangle pop dei Vogues e di You Baby (scritta da P.F. Sloan, ancora lui, con Steve Barri); il soul newyorkese di Ben E. King che in Spanish Harlem conserva i suoi pregnanti umori latini; e quello hollywoodiano di The ‘In’ Crowd, incisa da Dobie Gray prima che il Ramsey Lewis Trio ne facesse uno standard jazz dance, e di cui la Elliot si appropria con swing e fantastica naturalezza.

Riempitivi, forse: ma piacevole cornice a 1 album con diversi assi nella manica e che come cartolina della Los Angeles del 1966 ha pochi eguali. If You Can Believe Your Eyes And Ears fissa un momento di transizione. Una trasformazione nel costume, nel modo di vivere, di pensare e di vestirsi. Nell’umore e nei modelli di consumo, mentre i 45 giri lasciano il posto agli album, il mono allo stereo e lo stile hippieamore e droghe libere – si propaga alla nazione: è quel tiro alla fune tra mondi in contrasto e in evoluzione ad aromatizzare un disco pop indiscutibilmente figlio del suo tempo. Eppure immortale.

The Mamas and the Papas, If You Can Believe Your Eyes And Ears (1966, Dunhill)