Il nuovo Jimi Hendrix. Un enfant prodige che ha stregato Frank Zappa e Al Kooper; e che quando imbraccia la chitarra ti lascia a bocca aperta. Un adolescente con la voce, la sicurezza e l’esperienza di un professionista per cui la musica non ha segreti. Un predestinato. Quando nel 1971, a 17 anni appena, Shuggie Otis pubblica Freedom Flight, il suo 2° album per la Epic, non sembrano esserci dubbi: è nata una nuova stella capace di lasciare un’impronta sul futuro della black music e non solo. A 4 anni Shuggie, vero nome Johnny Alexander Veliotes Jr., ha imparato a suonare la batteria. A 11, folgorato dalla visione di George Harrison con la sua Gretsch a tracolla, si fa comprare la prima chitarra; e quello stesso anno fa il suo debutto in studio di registrazione durante una session di Lillie Fort, una delle Raelettes di Ray Charles.
2 anni dopo è in tour con suo padre, Johnny Otis, un veterano e pezzo grosso (anzi, grossissimo) della scena musicale che ha contribuito in maniera determinante a traghettare il jazz da big band, il jump blues e lo swing verso il rock and roll e il rhythm & blues producendo hit da Top 10 per se stesso (Willie And The Hand Jive), per Etta James e per Gladys Knight; e che oltre a Etta ha scoperto Jackie Wilson, Esther Phillips, Hank Ballard, Little Willie John, Big Mama Thornton e i Coasters. È lui a prendere per mano il figliolo (che intanto, nel 1969, è stato chiamato niente meno che da Zappa a suonare la chitarra su Peaches En Regalia, il pezzo più celebre del leggendario Hot Rats; e da Kooper per una nuova Supersession che lo presenta al pubblico come artista solista) nell’album di debutto del 1970, Here Comes Shuggie Otis. Ricco di guizzi (soprattutto lo strumentale iniziale, Oxford Gray) ma ancora un po’ incerto sulla direzione da prendere, con padre e figlio che scrivono insieme le canzoni mentre è Johnny Senior a occuparsi del cast di musicisti, della produzione e degli arrangiamenti.
Shuggie Otis
1 anno dopo, per Freedom Flight, il genitore siede ancora al banco di regia, incide qualche parte di percussione e qualche traccia vocale di supporto ma è Shuggie a prendere in mano la situazione. Sfornando, tra l’altro, una futura hit: Strawberry Letter 23, una sognante letterina psych pop profumata di fragola come quelle che gli mandava la fidanzata di allora; una deliziosa miniatura fluttuante e romantica, soave e incantata, hippie e colorata fra campanellini, accordi di chitarra acustica, una voce soffice e sottile, un vorticoso fraseggio di chitarra e cori celestiali nel break finale che sembra quasi prog. «Era tutta mia e non avevo preso l’idea da nessuno», ha ribadito 10 anni fa alla rivista inglese Mojo il musicista afroamericano con un po’ di sangue greco nelle vene. «Puntavo a una sonorità pop e la scrissi avendo già in mente che qualcun altro ne facesse una cover e la trasformasse in un successo»: accadde 4 anni dopo, quando Quincy Jones produsse la versione più robusta e decisamente funky dei Brothers Johnson resuscitata a fine 1997 da Quentin Tarantino per la colonna sonora e per 1 dei momenti clou di Jackie Brown. Ancora oggi assicura a Otis, 69enne, un assegno che gli permette di vivere dignitosamente, anche se inizialmente quand’era minorenne fu il papà a incassare le royalty a sua insaputa (ne seguì un acceso confronto finché Johnny non gli riconobbe la paternità del pezzo).
E il resto? Il resto di Freedom Flight starebbe bene accanto alle opere coeve dei suoi idoli di allora, Sly Stone e Stevie Wonder: gente come lui capace di trasformarsi alla bisogna in prodigiosi one man band. La reputazione guadagnata negli anni precedenti e i contatti di papà portano in sala d’incisione a Los Angeles nomi importanti come Wilton Felder, bassista e sassofonista dei Crusaders; e gente del giro zappiano come il tastierista George Duke e il batterista inglese Aynsley Dunbar. Ma è Shuggie, nel frattempo molto maturato anche come cantante, a dominare la scena suonando di tutto: il basso (il suo 2° strumento d’elezione), l’organo, il pianoforte, la batteria, le percussioni e ovviamente le sue chitarre. Ha il senso della misura e del timing, non straborda mai ma fa capire eccome di cosa sia capace alla sei corde tra le pieghe funk blues di Me And My Woman, tra i fulmini elettrici di Purple (dove accompagnato da un’armonica e da un trio di coriste, da organo e pianoforte, si concede anche lo spazio per un assolo al basso) o nella pigra, sensuale, psichedelica Sweet Thang in cui sfodera la sua tecnica al bottleneck (la si è riascoltata nel 2013 nel film Dallas Buyers Club con Matthew McConaughey e Jared Leto).
Intanto Ice Cold Water, funky e pulsante, parte come un pezzo da colonna sonora blaxploitation anticipando Prince («Ho studiato Shuggie Otis», confermerà il genio di Minneapolis a suo fratello anni dopo nel backstage di un concerto), flauto e percussioni colorano di latino il pop soul di Someone’s Always Singing mentre un maestoso colpo d’ala arriva in coda con la la title track: un autentico, inebriante volo libero, quasi 13 minuti di jam strumentale e contemplativa a metà del guado fra jazz, rock e psichedelìa, il fraseggio liquido di chitarra che su uno sfondo costante e ipnotico di wind chimes dialoga con il sassofono tenore e l’oboe di Richard Aplanalp e la celesta di Duke. Sembra Hendrix in comunione con John e Alice Coltrane; sembra il Santana mistico seguace di Trane e del maestro spirituale Sri Chinmoy, ma con qualche anno d’anticipo.
Un epilogo esaltante per un Lp purtroppo di scarso successo commerciale, a cui 3 anni dopo fece seguito il futuristico e proto-princiano Inspiration Information, ristampato in un paio d’occasioni e diventato un autentico oggetto di culto. Poi il nulla: a meno di 22 anni d’età, Shuggie lascia suo malgrado il music business. Scaricato dalla Epic, non trova più un contratto discografico. Ma soprattutto, testardo come un mulo e determinato a perseguire la sua visione musicale, non accetta compromessi né di mettersi al soldo di altri. Per questo rifiuta la collaborazione di Quincy Jones e offerte di unirsi ai Rolling Stones (quando sono alla ricerca del sostituto di Mick Taylor), ai Blood Sweat & Tears, alla band di Buddy Miles e poi a quella di David Bowie. Quando gli altri iniziano speranzosi una carriera, lui – timido e silenzioso come sempre – toglie il disturbo perdendosi a lungo nel labirinto dell’alcolismo e riprendendo solo molto tempo dopo a imbracciare la chitarra, a collaborare con il padre (scomparso nel 2012), a suonare dal vivo e a pubblicare dischi (nel 2018 Inter-Fusion, per la Cleopatra).
È stato, per gli addetti ai lavori e per il pubblico underground che ne seguirono le prime gesta, un’abbagliante meteora. Ma se in tanti si sono chiesti cosa avrebbe potuto succedere se le sliding doors del successo si fossero aperte per lui al momento giusto, lui non sembra essere tra quelli. Amareggiato, all’epoca, dai rifiuti che dovette incassare ma felice, quasi stupito, che tanto tempo dopo la sua musica abbia conosciuto un inatteso revival. Un po’ come il Sixto Rodriguez di Searching For Sugar Man: anche su “Zuccherino” Otis e sulla sua singolare storia varrebbe la pena di fare un film.
Shuggie Otis, Freedom Flight (1971, Epic)