11 dicembre 1964, Los Angeles, prime ore del mattino. Nell’atrio dell’Hacienda Motel sito all’incrocio fra la 91^ strada e Figueroa Street, nelle vicinanze dell’aeroporto, Bertha Franklin uccide Sam Cooke con un colpo di pistola che, penetratogli dal fianco sinistro, gli oltrepassa i 2 polmoni e il cuore prima di arrivare dall’altra parte del corpo. L’ha fatto, sosterrà davanti agli inquirenti, per legittima difesa e in seguito a un’aggressione del cantante, seminudo e infuriato per la fuga dalla sua stanza della ragazza d’origine asiatica conosciuta poche ore prima in un ristorante italiano. Secondo la testimonianza di quest’ultima, Cooke, alterato dall’alcol, l’aveva condotta lì a bordo della sua Ferrari contro la sua volontà usando le maniere forti per avere un rapporto sessuale con lei. Una bruttissima storia dai contorni tuttora incerti e misteriosi, finita in tragedia. «Signora, lei mi ha sparato!» sarebbero state le ultime, incredule parole del 33enne artista originario di Clarksdale, Mississippi: la patria del blues.

12 gennaio 1963, sabato sera. Sam Cooke si esibisce all’Harlem Square Club di Miami: un piccolo, trasandato e cavernoso locale ricavato da un magazzino per l’occasione ripulito e rimesso in ordine, anche perché è lì che la casa discografica RCA ha deciso di mandare i suoi tecnici a registrare un concerto con 8 microfoni posizionati sul palco e collegati a 1 mixer a 3 tracce ubicato nel piccolo ufficio che dal piano superiore domina la pista da ballo. In quel momento Sam è la stella più luminosa della black music, il Mister Soul quando quel genere di musica lo stanno inventando su due piedi lui e Ray Charles fondendo le melodie sacre del gospel con la carnalità del rhythm & blues. Charles ne è l’interprete più sanguigno, più grintoso, più legato alle sue radici sudiste. Cooke il più elegante, il più stiloso, il più metropolitano.

Sam Cooke
(1931-1964)

Non quella sera, non quel giorno (lo show principale è preceduto da un matinée che serve da prova generale). Quella volta, come ricorda il sommo Peter Guralnick nelle note di copertina di 1 disco, Live At The Harlem Square Club, 1963, che arriverà nei negozi solo nel giugno 1985, Sam («Il miglior cantante che sia mai esistito, senza possibilità di paragone», nelle parole di Jerry Wexler dell’Atlantic che non riuscì mai a strapparlo alla concorrenza) ha un atteggiamento e uno spirito diverso. In quel piccolo locale il suadente velluto della sua voce si trasforma talvolta in abrasiva carta vetrata, le sue carezze in un graffio. Forse è l’intimità, il calore, il sudore e la vicinanza di quei 750 corpi e di quelle 750 anime che lo circondano a innescare la trasformazione riportandolo ai tempi eroici dei Soul Stirrers prima che diventasse un personaggio celebre adulato e riverito. Solo che stavolta la sua voce e le sue movenze promettono sesso e scopate più che odi al SignoreQuando Sam cominciava a divertirsi sul serio», ricorderà l’amico e socio in affari J.W. Alexander, «riusciva a mandare le donne in delirio»).

Dati i limiti della tecnologia dell’epoca, il suono del disco non è perfetto ma restituisce fedelmente l’atmosfera: il vociare eccitato e gli strilli del pubblico, la voce di Cooke che si arrochisce e che si incrina, la band di King Curtis, il suo sax e quello di Tate Houston, la chitarra di Cornell Dupree, il piano di George Stubbs, il basso di Jimmy Lewis a pompare sangue nelle vene della musica insieme all’altra chitarra di Cliff White e alla batteria di AlbertJuneGardner, 2 fedelissimi. E così tutti i suoi grandi successi degli ultimi 2 o 3 anni – nei 39 minuti scarsi dell’album — si sporcano, si accalorano, si mischiano uno all’altro come in una medley senza soluzione di continuità che lega fra loro midtempo e ballads.

Con Feel It (Don’t Fight It) siamo subito inghiottiti in un clima rovente, Sam inizia a dialogare con gli spettatori («Come state, lì sotto?») e poi sciorina i suoi golden hits uno via l’altro: Chain Gang, con il celebre coro che evoca quello dei carcerati ai lavori forzati, e la soave Cupid; il gospel genuino di It’s All Right fuso con il pop dello standard romantico For Sentimental Reasons; la scioltezza e lo swing di Twistin’ The Night Away (oggi sigla del programma tv Che tempo che fa di Fabio Fazio); l’implorante Somebody Have Mercy, in cui Cooke s’immagina alla stazione dei bus con la classica valigia di cartone in mano, in un testo che incrocia gli stereotipi del blues con la Matchbox del rocker Carl Perkins. E poi il feeling dirompente di Bring It On Home To Me e l’umore festaiolo di Having A Party: canzoni amate da artisti neri e bianchi, soul e rock. Reinterpretate da Van Morrison, da Graham Parker, dai Pretenders e da Rod Stewart, che questo disco lo venera come pochi altri (“E chissà, se non ci fosse stato Sam forse non ci sarebbe stato Rod ”, dice nelle note aggiunte alla ristampa datata 2005).

Il tour inglese dell’ottobre 1962 a fianco di Little Richard, scrive Guralnick, aveva convinto Cooke a recuperare nei suoi spettacoli dal vivo il vecchio fervore del gospel e Live At The Harlem Square Club, 1963, osserva giustamente il grande autore americano, resta insieme al quasi contemporaneo Live At The Apollo di James Brown il più grande documento dell’autentica soul music: celebrata in diretta davanti a un pubblico che interagiva con il performer, diventava parte integrante dello spettacolo e di una comunità coesa alla ricerca di un’identità, di riscatto e di riconoscimento politico-sociale grazie a quel messaggero intraprendente, di bell’aspetto e dotato di una voce divina.

È ciò che manca all’unico live pubblicato mentre l’artista era ancora in vita, quel Sam Cooke At The Copa orchestrale, sofisticato e in abito da sera catturato su nastro quasi 1 anno e ½ dopo, nel luglio 1964, 5 mesi prima che quel colpo di pistola in un motel di Los Angeles ponesse fine al sogno e al party infinito a cui Cooke aveva invitato la sua gente, convinto che prima o poi, come cantava in A Change Is Gonna Come uscita come singolo 11 giorni dopo la sua morte, un cambiamento e giorni migliori sarebbero arrivati per tutti.

Sam Cooke, Live At The Harlem Square Club (1963, RCA)