Nei miei sogni suonavano le cornamuse/nei miei sogni ho perso un amico/scendi quaggiù Gabriele e suona la tua tromba/perché un giorno ci rincontreremo

Forse quel giorno è arrivato: forse Robbie Robertson, scomparso mercoledì scorso, 9 agosto 2023, all’età di 80 anni, ha ritrovato da qualche parte Richard Manuel e gli altri fratelli scomparsi (Rick Danko, l’amico/nemico Levon Helm) ricostituendo 4/5 della Band, il gruppo che ha affiancato Bob Dylan in alcuni dei momenti chiave della sua carriera gettando le basi per quel “rock delle radici ” a base di suoni tradizionali e di folklore popolare che oggi in tanti chiamano Americana.

Quelle parole accorate e di ispirazione biblica, cantate nel suo 1° album solista pubblicato il 27 ottobre 1987, erano dedicate proprio a Manuel: il pianista e vocalist che l’anno prima, mentre Robertson era in studio a lavorare al disco si era tolto la vita dopo un concerto, nel bagno di un albergo in Florida. Erano quasi 10 anni che Robbie se ne stava appartato e in silenzio, dopo il leggendario film di Martin Scorsese che nel 1978 aveva documentato l’ultimo valzer del quintetto, andato in scena 2 anni prima al Winterland di San Francisco: apoteosi ed epilogo di un grande romanzo di formazione rock and roll, di un modo di suonare, vivere, sudare e sanguinare musica che prima o poi avrebbe presentato un conto salato («La strada finirà per ucciderci», dice proprio Robbie a un certo punto della pellicola guardando in camera).

Robbie Robertson con il regista Martin Scorsese

Fallen Angel inaugurava il disco del ritorno citando nel testo le parole (scritte da Dylan) di Tears Of Rage, una canzone cantata da Manuel nel 1° album della Band Music From Big Pink, ma il suono era diverso nonostante la presenza in sala del 5° membro del gruppo, il maestro delle tastiere Garth Hudson. La canzone si apriva con una pulsazione cardiaca, o forse il rumore di un tuono incombente in lontananza, mentre salivano dal nulla una foschia di suoni sintetici e il lento groove delle batterie elettroniche programmate. Era il suono ricco e stratificato di una grande produzione anni 80: effettato e riverberato alla maniera di Daniel Lanois, il connazionale canadese allora lanciatissimo produttore nel periodo di mezzo fra la realizzazione di 2 hit planetari come So di Peter Gabriel e The Joshua Tree degli U2.

Non a caso, i nomi da copertina strillati in un disco in cui entrambi lasciavano un segno profondo: l’inglese, l’arcangelo Gabriele chiamato a suonare metaforicamente la sua tromba, che in Fallen Angel duettava con la voce di Robertson alle tastiere e accatastando parti vocali sul multitraccia; e che in Broken Arrow dettava la densa trama strumentale del pezzo con 1 dei suoi classici fraseggi al piano elettrico Yamaha. I 4 irlandesi con 2 brani in cui la voce di Bono Vox, i loop di chitarra e la sezione ritmica ricreavano il loro fuoco indimenticabile. Freneticamente impegnato in quegli stessi giorni a completare la colonna sonora di The Color Of Money di Scorsese, dettando al volo al telefono un testo per una canzone di Eric Clapton da includere nel film, Robbie aveva raccolto fra Dublino e Bath altri spunti da aggiungere a quanto aveva inciso a Los Angeles e ai Bearsville di Woodstock, la cittadina in cui con Dylan e la Band guardando al passato avevano costruito il suono del futuro.

Da allora tutto era cambiato: con Scorsese, Robertson dava pieno sfogo all’altra grande passione della sua vita, il cinema, lanciandosi insieme a lui in un’altra folle corsa a saliscendi, stavolta fra i vizi e le virtù di Hollywood, sesso, party e coca. Voleva vivere nel presente, smarcarsi dall’immagine di icona anni 60-70, esplorare nuovi modi di fare musica e nuove tecnologie sonore, approfondire i legami di sangue con la cultura nativa americana, lui figlio di una donna Mohawk cresciuta nella Riserva delle Sei Nazioni a sud ovest di Toronto.

Lo si percepisce chiaramente, quel DNA, nel respiro lento e mistico di canzoni che evocano un sostrato ancestrale e che sembrano gettare i semi di una delle sue più celebrate opere successive, Music For The Native Americans, soundtrack di un documentario televisivo uscito nel 1994 e che in Italia fu particolarmente apprezzata. Nella ricerca di un contatto sovrannaturale in Fallen Angel (“Sei lì? Puoi sentirmi? Puoi vedermi nell’oscurità? ”) e nella lenta, fluttuante e meditativa Broken Arrow, dove la promessa d’amore e di resistenza alle dure prove della vita simboleggiate da una freccia spezzata e da una bottiglia d’acqua piovana rimandano ad antichi rituali che facevano parte del suo retaggio. Anche tra i riff di Hell’s Half Acre, il momento più insolitamente rabbioso e rock and roll del disco, Robbie richiamava le sue origini raccontando di un “indiano” scaraventato dal suo mondo a un altro mondo: dalla grande scarpata del Wyoming dove i nativi praticavano la caccia al bisonte, all’inferno ostile della giungla vietnamita; e aprendo un capitolo di storia dimenticato dalla narrazione mainstream.

Non era più la Band, non c’erano più i “fratelli di sangue” anche se Hudson e Danko tornavano per qualche piccolo cameo e il rischio più grosso, per Robertson, era mettersi a cantare quei suoi brevi romanzi allegorici, quelle mini sceneggiature e i loro coloriti personaggi con la sua voce roca, imbrunita dalla nicotina e un po’ monotona che nel gruppo aveva sempre nascosto (con 2 sole eccezioni) dietro a quelle formidabili di Levon, Rick e Richard. Era comunque un timbro perfetto per il suo storytelling, per quel talento impagabile da affabulatore che qui si apriva con coraggio e curiosità agli input di nuovi collaboratori.

La focosa e tambureggiante Sweet Fire Of Love era un inno al trionfo dell’amore sul male, nata da una lunga jam di studio e aveva la stoffa dei migliori U2 del momento, mentre gli elastici rimbalzi tra le chitarre di Robbie e di The Edge imprimevano ritmo anche a Testimony, un tosto funk rock che recuperava un arrangiamento fiatistico ideato da Gil Evans per The Color Of Money e che nel 2016 ha dato il titolo alla sua autobiografia. All’occorrenza, lo stesso Lanois ci metteva una voce, una chitarra o qualche percussione di sfondo, in un cast rotante e ampio di musicisti che includeva Manu Katché e Tony Levin, sezione ritmica di Gabriel; il grande bassista Larry Klein, allora marito di Joni Mitchell; il batterista di scuola zappiana Terry Bozzio; le voci dei BoDeans e di Maria McKee, nonché un collaboratore fidato del produttore: il chitarrista Bill Dillon, dal tocco impressionista e coloristico.

Le chitarre elettriche, che Robertson aveva sempre usato in funzione armonica e ritmica più che solista ispirandosi a grandi maestri gospel/soul come Pops Staples erano ancora lì, a volte sommerse nel mix e nel cumulo di piste, altre più in 1° piano; e il rock and roll riemergeva da quella coltre di suoni “trattati ”, dal flusso ipnotico del “fiume del tempo” citato nei testi. Nell’arioso ed epico singolo Showdown At Big Sky, per esempio, («Una Sfida all’OK Corral riscritta a grandi lettere come Guerre Stellari», l’ha descritta il giornalista Mark Prendergast), un uptempo che evoca l’incubo nucleare, la minaccia della corsa agli armamenti e l’incombenza del disastro ambientale con un granitico giro di basso di Klein e un assolo di sei corde rapido e lacerante come un colpo di rasoio. E nell’affresco epico di American Roulette, la sua sei corde di nuovo stridente, Levin allo Chapman Stick e una breve coda dub reggae per raccontare di chi sul grande tavolo verde della fama, della ricchezza e della celebrità americana s’è giocato la vita: James Dean, Elvis Presley e Marilyn Monroe. Robertson ne canta con la consapevolezza guardinga di chi queste cose le ha toccate con mano, rischiando di bruciarsela. Con quella sua inimitabile capacità di raccontare i perdenti, il lato scuro e nascosto del mito e dell’epopea americana, quella “terra delle ombre” che aveva deciso dovesse rappresentare lo sfondo scenografico e il concept del disco.

Robertson e Bob Dylan

Di Somewhere Down The Crazy River, un altro dei pezzi forti dell’Lp, Dillon ha ricordato che nacque a tarda notte in studio mentre Robbie s’era messo casualmente davanti al microfono, come un dj da ore piccole, a raccontare di quando al seguito del rocker Ronnie Hawkins e di Helm aveva avuto il suo 1° impatto con il profondo Sud degli States e con il Delta del Mississippi: Lanois tenne i registratori accesi e conservò quel suo suggestivo talking per creare un piccolo capolavoro di Southern Gothic incentrato sul suono tremolante di un Omnichord Suzuki da lui stesso suonato: una sorta di autoharp elettronico su cui Robbie aveva costruito la sequenza di accordi.

Era il timbro vocale di Sammy J. Llanas alias Sammy BoDean, facilmente scambiabile per quello di una donna, a contrappuntare in quel clima afoso e sensuale le impressioni di “uno straniero in terra straniera” che nella notte torrida e umida ascolta il blues di Little Willie John sdraiato sul sedile posteriore di una Chevy abbandonata nei campi; e che quando vede balenare nel buio l’insegna rossa di un neon si mette a inseguire il suono di un juke box dall’altra parte dell’argine finendo sempre nello stesso caffè, come fosse spinto da un vento invisibile.

The Band: Rick Danko, Robbie Robertson, Levon Helm, Richard Manuel, Garth Hudson

Poteva calzare anche al suo vecchio gruppo, quel testo, anche se l’anello di congiunzione più diretto, fece notare lui stesso, era Sonny Got Caught In The Moonlight, un’emozionante e spettrale ballata su una caccia all’uomo a tinte noir; e non solo per la presenza di Danko ai cori. «Questa per me è una canzone dalle forti qualità cinematografiche e assomiglia a molti dei pezzi che facevo con la Band», spiegò. «Non stavo cercando di tornare indietro, ma a volte non puoi fare a meno di riflettere su dove sei stato».

Se lo sarebbe portato dietro fino alla fine, quel passato, con orgoglio e sicuramente anche con qualche rimorso. Con Robbie Robertson, a cui la Geffen Records destinò un alto budget confidando nel riscontro del pubblico, si era riproposto in prima linea guadagnandosi 1 disco d’oro in America e 1 nomination ai Grammy Awards. Era tornato da star, con un’identità diversa ma sempre con quell’allure un po’ distante, fascinosa, enigmatica. Era tornato a essere l’uomo che – come ha scritto Michael Hann sul Guardian – aveva “catturato il sogno di ciò che l’America è stata e avrebbe potuto essere ”. Un uomo “con una chiara destinazione e una grande immaginazione”, come cantava lui stesso in Somewhere Down The Crazy River.

Robbie Robertson (1987, Geffen)