I fatti, innanzitutto. S.F. Sorrow dei Pretty Things è stata, secondo gli storici, la prima rock opera in assoluto (registrata 1 anno prima di Tommy degli Who, a cui andarono invece tutti gli onori e le attenzioni di critica e pubblico). È anche riconosciuto, a posteriori, come un caposaldo della psichedelìa inglese anni 60 accanto ai masterpiece contemporanei di Beatles e Pink FloydSgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e The Piper At The Gates Of Dawn – pubblicati però con oltre 1 anno d’anticipo e di fama smisuratamente superiore.

È l’amaro destino del flop/capolavoro della band britannica originaria del Kent, vittima (fra le altre cose) di tempistiche sfortunate: già pronto nel fatidico 1967, l’Lp non arrivò nei negozi prima del dicembre 1968 dopo continui slittamenti decisi dalla EMI; e addirittura nel 1969 (su licenza Rare Earth/Motown) negli Stati Uniti, con una copertina sagomata a sfondo “tombale ”. Rimase a galleggiare in acque stagnanti, anche se quegli inglesi brutti, sporchi e cattivi quanto i Rolling Stones erano partiti con il piede giusto, quando nel 1966 avevano scalato le classifiche nazionali fino al 6° posto grazie al 1°, ruvido e omonimo album zeppo di cover blues e r&b e canzoni di Bo Diddley, Chuck Berry e Willie Dixon. Poi arrivarono la Swinging London e la Summer of Love e nulla fu più come prima. Loro ci si tuffarono non per calcolo, ma per convinzione. O forse per disperazione.

The Pretty Things

«Non avevamo niente da perdere, nessun ponte da bruciare», ha ricordato nel maggio 2020 durante l’ultima intervista concessa al mensile Mojo una settimana prima di morire il carismatico frontman e cantante Phil May, nei Sixties l’uomo con i capelli più lunghi d’Inghilterra e capobranco di quella banda di giovani delinquenti che ovunque andassero facevano casino e provocavano scandalo. «Tuffarci in una piscina psichedelica piena di squali per noi non era un problema. Del resto, non avevamo un altro cazzo di posto dove andare!».

Le premesse erano più che incoraggianti. Il nuovo corso, anticipato dall’ubriacante e futuristico singolo Defecting Grey, era in piena sintonia con lo zeitgeist, lo spirito dei tempi. Il loro manager era un uomo astuto, navigato e con i contatti giusti come Bryan Morrison, compagno di corso al liceo artistico che dai suoi uffici di Denmark Street, a Londra, gestiva con il suo staff anche i primi passi dei Pink Floyd. Che a loro volta, per incidere The Piper At The Gates Of Dawn si erano affidati alla sapienza e all’esperienza di Norman Smith, fonico residente della EMI ad Abbey Road che aveva lavorato anche ai primi dischi dei Beatles (fino a Rubber Soul, 1965). La EMI, che pubblicò S.F. Sorrow su etichetta Columbia, concesse tuttavia al gruppo un budget risicato, 3.000 sterline appena, con cui dovettero coprire tutte le spese. «E così», ha raccontato May, «facemmo tutto da soli…. Io disegnai la copertina, Dick (Taylor, il chitarrista solista che era stato compagno di scuola di Mick Jagger a Dartford) si attrezzò per scattare le fotografie con la sua vecchia Pentax e Bryan ci organizzò un meeting con Norman».

O “Normal ”, come lo aveva battezzato John Lennon sintetizzando in una delle sue folgoranti battute il carattere quieto e accomodante del tecnico del suono, poi promosso sul campo produttore. A tutti gli effetti un 6° membro dei Pretty Things, in S.F. Sorrow, capace di far “suonare ” lo studio di registrazione come nessun altro fra distorsioni, riverberi, delay, phasing, chitarre riprodotte al contrario, continui rimbalzi fra i canali stereo, invenzioni e trucchi d’alta magia prodotti saltando da un registratore valvolare a 4 tracce all’altro. Il sapore e l’audacia delle soluzioni sonore ricordano quelli dei compagni di casa discografica e coinquilini di Abbey Road: i Beatles più acidi versante Lennon più che McCartney; i Pink Floyd, quando a illuminarli era il talento lunatico di Syd Barrett. Manca (volutamente) nel disco il singolo schiacciasassi, ma non se ne sente la mancanza nei 40 minuti e 59 secondi di un’opera che disegna un quadro fosco del passato, del presente e del futuro traendo spunti dalla Divina Commedia dantesca e dai classici della tragedia greca.

L’assenza di hit potenziali era funzionale all’idea allora rivoluzionaria di realizzare un concept. «A un certo punto», spiegò Taylor, «mi balenò l’idea che se fossimo stati in grado di registrare un album che non fosse governato dalle costrizioni dei singoli avremmo potuto pensarlo come tale, con i brani che si fondevano fra di loro: lo facevano da sempre nella musica classica, perché non potevamo farlo anche noi?». May ci giocava da tempo, con quell’idea, che più volte aveva ripreso in mano e affinato sviluppando la storia di un personaggio immaginario, il sognatore Sebastian F. Sorrow nato in una grigia cittadina industriale situata «a meno di 8 miglia di distanza da qualunque altro posto», traumatizzato dall’esperienza della Grande Guerra e alla fine vinto dalla disillusione, dal bigottismo della società e da un sistema capitalista disumanizzante fino a proclamarsi “la persona più sola ” al mondo: forse non proprio ciò che i ragazzi del ’68, fiduciosi nel futuro e galvanizzati dalla rivoluzione sessuale e culturale, si aspettavano in quel momento di ascoltare su un 33 giri. Anche per questo, forse, il pubblico diresse le sue attenzioni altrove e non mancarono nella stampa specializzata critiche feroci (su Rolling Stone il celeberrimo Lester Bangs parlò di “un incrocio grossolanamente puerile tra i Bee Gees, Tommy e i Moody Blues ”, aggiungendo che ai Pretty Things qualcuno avrebbe dovuto sparare per quei testi pretenziosi e poco comprensibili).

Al contrario della livida trama, però, la musica di S.F. Sorrow era colorata, energica ed esuberante: un magnifico manifesto di Pop Art anni 60. Incoraggiati e incalzati da Smith, May, Taylor, il bassista Wally Waller, il tastierista Jon Povey e il capriccioso batterista Skip Alan (poi sostituito in corsa dall’ex Tomorrow e futuro Pink Fairies Twink cui, con suo grande rammarico, May dovette garantire come compenso crediti autoriali su canzoni tutte scritte prima della sua entrata in scena), sembravano divertirsi come bambini in un parco giochi, aggiungendo alla loro strumentazione standard ance, un Mellotron che simulava sezioni d’archi e fiati e il sitar di George Harrison, quando il Beatle lo lasciava incustodito ad Abbey Road.

Con le sue vigorose pennate di chitarra acustica, S.F. Sorrow Is Born è un incipit perfetto che illustra la pasta sonora di un disco che è un vortice a spirale di chitarre, power chords, cori greci e sonorità esotiche e orientali con la voce di May, spesso anche in falsetto, che alternativamente sale al centro del fronte sonoro o indietreggia scomparendo nel mix. Il celestiale coro a cappella che apre la filastrocca un po’ kinksiana di Bracelet Of Fingers, i riff sferzanti di She Says Good Morning e l’umore folk/pastorale di Private Sorrow, conducono alla convulsa esplosione garage e alla ripetitività ossessiva di Balloon Burning: sembra di stare a San Francisco in compagnia dei Moby Grape o dei Blue Cheer, o in anticipo di qualche anno sul krautrock.

La copertina “tombale” dell’edizione americana di S. F. Sorrow

La teatralità drammatica e funerea di Death chiude la prima facciata mentre il 2° lato si apre con il pezzo forse più noto e rappresentativo del disco: in Baron Sunday le dissonanze quasi jazzate e un tribale break percussivo evocano con straordinaria efficacia il misterioso e inquietante personaggio che nei riti voodoo dona la vita e la morte. I vortici psichedelici dell’estatica The Journey, il clima onirico di I See You, gli effetti stridenti e sperimentali di Well Of Destiny (in cui anche Norman Smith si guadagna un credito come coautore), la melodia pepperiana di Trust, la voce filtrata, i battimani e le chitarre quasi metal di Old Man Going sfociano poi nella dolente e melodica ballata acustica finale, Loneliest Person.

È la fine del viaggio: di un brutto trip per il suo protagonista, di un amazing journey degno di quello di Tommy per noi che ancora oggi lo ascoltiamo a bocca aperta. Il tempo ha fatto giustizia, fin da quando, nel 1998, i Pretty Things hanno celebrato il trentennale della pubblicazione dell’album ad Abbey Road risuonandolo interamente dal vivo per un simulcast con David Gilmour alla chitarra e l’Arthur Brown di Fire nei panni del narratore (l’anno successivo quella performance è stata documentata su un disco, Resurrection) ottenendo riconoscimenti meritati ma tardivi. Resta il dubbio: cosa sarebbe successo se fosse uscito nel 1967, togliendosi di dosso l’ombra ingombrante dei Beatles, dei Pink Floyd e degli Who? Forse i Pretty Things sarebbero stati subito considerati per quel che erano: non epigoni, ma pionieri.

The Pretty Things, S.F. Sorrow (1968, Columbia)