«Collaborare con i Neville Brothers, per me ragazzo bianco e franco-canadese, è stata come la ciliegina sulla torta durante un dottorato di ricerca», ricordava 8 anni fa alla rivista Autre Daniel Lanois, il produttore simbolo degli anni 80 che in quel decennio si impose all’attenzione generale dopo avere fatto pratica accanto a Brian Eno. Con i 4 fratelli di New Orleans lavorò tra il 1988 e il 1989: loro erano una leggenda locale, lodati da rock star come Keith Richards e Linda Ronstadt, ma in quel momento era Lanois la stella più luminosa, sulla scia delle sue apprezzatissime collaborazioni in studio con gli U2 di The Unforgettable Fire e The Joshua Tree, con il Peter Gabriel di So e con il Robbie Robertson del 1° album solista (poco dopo sarebbe arrivato anche Oh Mercy di Bob Dylan).

Dischi marchiati da sonorità inconfondibili, tremolanti e a tratti spettrali, zeppe di echi e di effetti ma allo stesso tempo con molti spazi vuoti in cui voci, strumenti e canzoni fluttuavano galleggiando in un’atmosfera rarefatta. Accadeva anche in Yellow Moon: registrato (ovviamente) a New Orleans, la città del voodoo e del Carnevale; impregnato degli odori e dei sapori della Big Easy; radicato in una storia ultracentenaria popolata da fantasmi e da leggende, ma proiettato in una dimensione contemporanea quando non futuristica.

Con acume e immaginazione, Lanois aveva messo a frutto il formidabile capitale umano che aveva a disposizione. Art Neville, il tastierista allora 52enne, era stato un enfant prodige con gli Hawkettes (nel 1954, a 17 anni, aveva cantato quello che sarebbe diventato l’inno ufficioso del Carnevale, Mardi Gras Mambo) prima di scrivere le tavole della legge del funk neorleansiano con i Meters, straordinario ensemble cui si era unito in seguito anche Cyril, percussionista e cantante di 11 anni più giovane di lui, energia straripante e una totale devozione per Bob Marley, per la musica reggae e per il rastafarianesimo. Aaron, 48 anni, fisico da scaricatore di porto e voce da usignolo con un falsetto, un vibrato e un purissimo timbro tenorile riconoscibili alla prima nota, era il magnetico e imponente frontman che nel 1966 aveva scalato le classifiche nazionali con la ballata soul Tell It Like It Is; mentre il longilineo Charles, classe 1938, era il guizzante sassofonista r&b che non aveva mai dimenticato la passione per il jazz.

«Hanno delle voci meravigliose, un forte senso della tradizione e una delle migliori sezioni ritmiche al mondo. A tutto questo non potevo dire di no», ricordava Lanois in cui i Neville vedevano uno sciamano dotato di poteri magici, in grado di portarli all’attenzione di un pubblico più vasto – quello del rock, in senso lato – senza indulgere nei compromessi “commerciali ” di un album come Uptown che 2 anni prima aveva fatto storcere il naso a molti.

Andò esattamente così. E a dispetto di risultati di classifica non particolarmente eclatanti (N°66 nella Billboard 200 americana), Yellow Moon diventò nel 1989 l’album di cui tutti gli appassionati parlavano, stregati e rapiti. Non c’era un momento di stanca, in quei 52 minuti e 40 secondi riempiti da canzoni scelte con cura e magistralmente eseguite: ispirate composizioni originali e selezioni dal grande catalogo della musica americana del 900, ritmo e impegno politico, il funk e i groove alternati a grandi ballads ripescate dalla tradizione folk e soul e dalla canzone d’autore. Con le sue percussioni tribali e il suo minimalismo My Blood (cantata da Cyril) celebrava il legame di sangue con la Madre Africa, mentre il sax di Charles disegnava traiettorie ellittiche ed esotiche che caratterizzavano anche la title track, una Caravan ellingtoniana versione anni 80 in cui era Aaron a indirizzare il suo lamento amoroso alla luna appoggiando la duttile voce su un irresistibile calypso.

Quando nella cover scoppiettante di Fire And Brimstone di Link Wray – fuoco e zolfo, come da titolo – esplodevano i fiati della locale Dirty Dozen Brass Band e Tony Hall si prendeva la scena con il suo prorompente basso elettrico sempre in prima linea nel missaggio, si capiva quanto anche gli altri musicisti risultassero cruciali alla riuscita del melting pot: Willie Green alla batteria e Brian Stoltz alla chitarra, erano gli altri componenti della formidabile macchina ritmica che aveva sedotto Lanois, lui stesso impegnato alle 6 corde elettriche e alle tastiere insieme al fedele assistente Malcolm Burn, mentre Brian Eno spargeva qua e là la sua sapienza in materia di elettronica e la sua polvere di stelle.

Daniel, che aveva iniziato a suonare in Canada proprio in gruppi funk cogliendo i primi successi importanti con la new wave danzabile di Martha and the Muffins, sapeva come catturare l’anima ritmica dei Neville: nell’ipnotica Voo Doo in stile Dr. John, fra battiti profondi che sembravano arrivare direttamente dalle viscere della Terra, un sax sensuale e un piano elettrico jazzato; così come in Healing Chant, un canto di guarigione etno fusion degno dei Weather Report che nel 1989 si sarebbe guadagnato un Grammy Award come “migliore performance pop strumentale ” (nonostante la presenza delle voci dei fratelli) e nella conclusiva Wild Injuns che evocava le radici “indiane ” e native del crogiolo di razze di New Orleans rinverdendo i fasti dei Meters e dei Wild Tchoupitoulas al ritmo di una parata di strada da Mardi Gras.

La luna gialla dei Neville Brothers però, aveva anche un’altra faccia: irradiava i suoi raggi ben oltre i confini della Louisiana rinnovando il linguaggio della canzone di protesta attraverso vecchie e nuove canzoni che parlavano di ingiustizia, di riscatto razziale e di emancipazione. A partire dalla straordinaria versione di A Change Is Gonna Come di Sam Cooke, “la storia di una generazione e di un popolo ” (nelle parole del grande storico della musica popolare Peter Guralnick) che Lanois ed Eno avvolgevano in una calda coperta di suoni celestiali, mentre con i suoi magici melismi e la sua voce di velluto Aaron fissava su nastro una delle sue performance più memorabili di sempre («Quando canto», ha spiegato lui stesso una decina d’anni fa a CBS News, «ci metto dentro tutte le cose buone e quelle cattive, le risate e gli sguardi accigliati che riflettono tutto ciò che ho passato e che ho visto vivere ad altre persone»).

Da lì a Bob Dylan, da cui Cooke aveva preso spunto e ispirazione per scrivere il suo capolavoro, il passo era breve, logico e coerente. Allo stesso anno, 1964, risalivano le 2 canzoni del cantautore di Duluth – entrambe incluse sulla prima facciata di The Times They Are a-Changin’ – che Lanois e i Neville decisero d’includere nel disco: agli ipnotici e intensi 6 minuti e ½ di sospensione ritmica di With God On Our Side, Aaron aggiunse una strofa dedicata alla guerra in Vietnam completando il quadro delle violenze perpetrate dalla sua patria in nome di Dio, mentre in Ballad Of Hollis Brown erano la sua voce dolente e una chitarra suonata col bottleneck ad aggiornare il tragico racconto di miseria, disperazione e morte che Dylan aveva ambientato nell’America profonda delle comunità agricole. A dare un po’ di necessario conforto provvedeva subito dopo un’ariosa reinterpretazione corale di Will The Circle Be Unbroken, il celeberrimo inno gospel d’inizio 900 riadattato 3 decenni dopo da A.P. Carter e che nella versione dei Neville conservava la sua aria solenne e il suo messaggio spirituale di riconnessione nell’aldilà con le persone amate.

Alla voce e alla penna di Cyril (affiancato da altri membri dell’entourage) erano affidate un paio di altre message songs potenti e evocative: in Wake Up, fra i caldi timbri dell’organo di Art, una ritmica circolare e insistente e una chitarra suonata in stile Nile Rodgers, il più giovane dei 4 fratelli indirizzava la sua richiesta di pace a Jah, agli uomini di buona volontà e alle superpotenze mondiali, mentre nel palpitante rap funk di Sister Rosa omaggiava il coraggio di Rosa Louise Parks, la donna afroamericana che il 1° dicembre del 1955 a Montgomery, in Alabama, si era rifiutata di cedere il posto a un bianco su un autobus diventando istantaneamente una figura simbolo del movimento dei diritti civili.

Era con canzoni come quelle che Yellow Moon riusciva perfettamente nell’impresa di legare passato e presente, Storia e attualità, tradizione e modernità partendo dal cuore nero dell’America e dal sincretismo culturale della sua città più musicale, meticcia, misteriosa: con quel disco, Lanois e i Neville Brothers la riportavano al centro della scena dimostrando che non aveva poi tutti i torti, un’altra gloria locale come Ernie K-Doe, quando sosteneva che tutta la musica del mondo veniva da New Orleans.

Neville Brothers, Yellow Moon (1989, A&M)