Nel mare del synth pop in cui gli appassionati di musica rock navigavano a stento 40 anni fa, 1 disco come Rattlesnakes di Lloyd Cole and the Commotions rappresentò un’onda anomala, una piccola folgorazione e una boccata d’aria fresca. Quasi come il debutto dei Dire Straits nel 1978, in piena epoca punk. Il chitarrista della band scozzese, Neil Clark, non aveva certo il talento e il virtuosismo di Mark Knopfler. In compenso, il giovane leader aveva una bella voce profonda e un fascino ombroso da sex symbol, con quel ciuffone alla Elvis Presley e l’aria da intellettuale perennemente imbronciato (è l’unico a non sorridere nella foto in bianco e nero riprodotta nella busta interna dell’Lp).

Lloyd Cole era un ragazzo del Derbyshire trasferitosi in Scozia al seguito dei genitori e che qualche anno prima si era iscritto alla University of Glasgow per studiare letteratura inglese e filosofia. Al 2° anno accademico aveva fondato un gruppo con nuovi amici del posto e deciso di abbandonare gli studi. Anni dopo, a colloquio con il quotidiano Guardian, spiegò così le motivazioni del suo gesto e del suo progetto musicale: «Volevo farmi bello con le parole. Avevo letto che Bob Dylan seduceva le donne scrivendo canzoni per loro».

Lloyd Cole and the Commotions, video shoot di Rattlesnakes, 24 ottobre 1984

Si trovava al posto giusto nel momento giusto. Nel mezzo di una scena fertile ai tempi in cui il pop scozzese era quasi diventato un brand grazie a etichette come la Postcard e a gruppi quali gli Aztec Camera e gli Orange Juice di Edwyn CollinsI nostri eroi»). Voleva diventare, nientemeno, che «una specie di Aretha Franklin al maschile». E forse per questo, insieme a Clark, al tastierista Blair Cowan, al bassista Lawrence Donegan e al batterista Stephen Irvine aveva deciso di smettere d’emulare i Duran Duran e di barattare le keytar allora tanto in voga con vere chitarre e vere tastiere dal suono vintage. Avvicinandosi, insomma, al rock e al soul. Quest’ultimo richiamato anche dal nome del gruppo e dalla passione per Booker T. & the MG’s, il 1° dalle chitarre jangle in stile Byrds che nel Regno Unito avevano in quei giorni il miglior interprete in un altro debuttante, Johnny Marr degli Smiths.

Come il più tormentato e problematico Morrissey, frontman del gruppo di Manchester, Lloyd era un ragazzo di buone letture amante del cinema d’essai, aveva carisma e personalità. Ottimamente pilotati dal produttore Paul Hardiman, fresco reduce dall’eccellente Soul Mining dei The The, ai Garden Studios londinesi dell’ex Ultravox John Foxx lui e i Commotions fissarono su nastro 10 canzoni senza macchie che la major Polydor distribuì ai negozi il 12 ottobre 1984. Con quell’agile sezione d’archi arrangiata da Anne Dudley e un riff di chitarra che a Clark si era palesato di notte durante un sogno, l’irresistibile e galoppante title track sembrava una versione più americana e velocizzata dei pezzi incisi da Echo & the Bunnymen per il coevo Ocean Rain. E che dire di quel testo in cui Cole citava Simone de Beauvoir, simbolo del moderno pensiero femminista; ed Eve Marie Saint in Fronte del porto, incarnazione di una fragile bellezza femminile, ispirandosi ai protagonisti e alle ambientazioni dei romanzi di Joan Didion?

Difficile restare insensibili. Forse ancora più intrigante era Perfect Skin, il titolo che apriva trionfalmente l’album e che 5 mesi prima aveva segnato il debutto discografico della band scozzese su 45 giri: la voce aveva un timbro non dissimile da quello di Steve Wynn dei Dream Syndicate, la chitarra era squillante come quelle dei Byrds e affilata come quella di Lou Reed, mentre il banjo aggiungeva un tocco country. Bastavano pochi secondi per farsi sedurre da quel sound e da quelle parole così letterarie e inusuali che ancora generano stupore e meraviglia in fan della prima ora come Nicky Wire dei Manic Street Preachers (“Louise è la ragazza dalla pelle perfetta/mi dice tieni accesa la luce altrimenti non la si può vedere/ha degli zigomi che sembrano un disegno geometrico e gli occhi del peccato/ed è stata sessualmente illuminata da Cosmopolitan ”): libere associazioni di idee squisitamente dylaniane, spiegherà Cole, all’epoca totalmente ossessionato dall’immaginario di canzoni come Subterranean Homesick Blues (ma anche da certa cultura europea).

Lloyd Cole

Subito dopo, anche Speedboat ci proietta negli anni 60, con i Jules e Jim di François Truffaut protagonisti di una storia che cita anche Leonard Cohen fra un vibrato di chitarra alla Link Wray e un organo a metà tra Booker T. e i Doors, pop soul psichedelico con un po’ di blues. Siccome però siamo in pieni Eighties, una punta di new wave affiora in Down On Mission Street dove un’altra Julie è alle prese con un uomo perennemente insoddisfatto che abbandona il campo lasciandosi alle spalle una scia di cuori spezzati. I suoi violini e i suoi synth discreti conducono a un altro inciso di bel respiro facendo da contraltare alla fisarmonica del jangle pop di Charlotte Street (incontro fatale su una banchina ferroviaria fra una donna e un uomo dal sorriso forzato “in cerca di una rima/per il New York Times ”) e al delicato arpeggio acustico della disincantata 2cv, dove la mitica Citroën 2CV appartenente a Cowan diventa un esotico simbolo bohémienne in una storia di 2 ragazzi che trovano “un po’ di felicità per riempire il vuoto ” prima d’accorgersi di stare “semplicemente perdendo del tempo prezioso ”.

Un’altra automobile, stavolta simile a quelle guidate da Grace Kelly sulle strade della Costa Azzurra, scorrazza insieme a una protagonista che sembra un’amica di Truman Capote sullo sfondo di Four Flights Up, country & western a tinte tartan e in versione Lowlands scozzesi, mentre Patience racconta di un’altra relazione caotica e in frantumi ma con la delicatezza pop e i coretti angelici di Steve McQueen dei Prefab Sprout e con un bridge degno di Jimmy Webb. Il meglio, però, lo regalano le canzoni che chiudono le 2 facciate dell’Lp, le prime che Cole ha scritto nella sua stanza al golf club di Glasgow (dove lavoravano i genitori) usando una piccola tastiera elettronica, una drum machine da pochi soldi e un registratore Portastudio a 4 tracce. In fondo al 1° lato brucia a fiamma lenta Forest Fire, 2° singolo dell’album, ardente di passione come il fuoco in una foresta con una bella intro di voce e organo, un sapiente crescendo e un epico assolo di chitarra elettrica registrato a notte fonda da Clark mentre il resto della band è uscito a mangiarsi un curry. «Seria ed esplicita come poche mie altre cose», spiegherà Cole in successivi incontri con la stampa: una semplice canzone d’amore imperniata su una metafora intuitiva; un rogo che alza decisamente la temperatura emotiva del disco.

Are You Ready To Be Heartbroken chiude invece il lato B con un memorabile arpeggio di chitarra acustica, altre citazioni colte e cool nel testo (i dischi di Arthur Lee dei Love, Norman Mailer preso a esempio della mascolinità e di tutti i duri del mondo), ancora il Bob Dylan di Highway 61 Revisited e di Blonde On Blonde in testa e una melodia morbida e suadente scandita da una lieve batteria elettronica, dal coro e dall’orchestra (2 anni dopo la porterà in classifica la rediviva Sandie Shaw, icona degli anni 60 adottata e vezzeggiata 20 anni dopo dalle nuove pop star britanniche).

Sei pronto a farti spezzare il cuore? Sei pronto sanguinare? ”, canta Lloyd in un folk pop da 3 minuti che ha il sapore dell’instant classic. I Commotions resteranno insieme 3 anni soltanto pubblicando altri 2 dischi, Cole continuerà a sfornare album con regolarità fino a oggi, eppure a Rattlesnakes non riuscirà mai più ad avvicinarsi finendo gradualmente alla deriva del mainstream. Uno dei misteri irrisolti del pop contemporaneo.

Lloyd Cole and the Commotions, Rattlesnakes (1984, Polydor)