«Mi hai salvato dall’oblìo», ricorda Eric Clapton nel commosso e commovente videomessaggio che ha diffuso poco dopo essere stato raggiunto dalla notizia della morte, a 90 anni, del suo vecchio mentore John Mayall, avvenuta il 22 luglio scorso nella sua casa in California. Non era neppure 20enne, Eric, quando il connazionale, di 12 anni più anziano di lui, gli gettò un salvagente dando una nuova occasione a quel giovane guitar hero lanciatissimo sull’onda montante del British Blues ma di punto in bianco naufragato in acque tempestose e sul punto di abbandonare la musica dopo che, nel marzo 1965, aveva deciso di lasciare gli Yardbirds: in ascesa costante ma ormai troppo inclini al pop e al compromesso per un purista come lui che sognava di essere nato a Chicago o sulle sponde del Delta del Mississippi, invece che nella provincia inglese. Proprio come Mayall da Macclesfield, 25 chilometri da Manchester a oltre 6.000 dalla Windy City, che cresciuto alla scuola del patriarca Alexis Korner avevano messo in chiaro le sue intenzioni già dal febbraio 1963, quando aveva cominciato ad allestire un collettivo cangiante di musicisti dandogli un nome programmatico, The Bluesbreakers. Fedeli nello spirito alla tradizione delle 12 battute ma pronti anche a infrangerne le regole codificate secondo la loro specifica, e moderna, sensibilità.

Quando John, che da Korner aveva raccolto il testimone diventando il nuovo predicatore del blues e dell’r&b in Inghilterra, lo chiama, Eric risponde immediatamente e con entusiasmo. Mayall gli mette a disposizione la sua favoleggiata collezione di dischi e Clapton ha una folgorazione dopo avere visto una foto in cui il leggendario Freddie King imbraccia una Gibson Les Paul. Decide seduta stante di abbandonare la Fender Telecaster rossa che fino a quel momento era stata la sua fedele compagna, si procura una Les Paul Sunburst e la collega all’amplificatore Marshall Combo 1962 serie 2, piccolo compatto e potente, che si era comprato l’anno prima nel negozio londinese di Jim Marshall e che già usava regolarmente dal vivo (proprio grazie a lui, l’apparecchio verrà conosciuto in seguito come Bluesbreaker).

Eric Clapton e John Mayall

È il marzo 1966 quando, insieme al batterista Hughie Flint e al bassista (e futuro Fleetwood Mac) John McVie i 2, che già avevano cominciato a suonare saltuariamente insieme l’anno prima, fanno il loro ingresso negli studi della Decca a West Hampstead, Londra, a 2 passi da quel club ubicato al primo piano del Railway Hotel, il Klooks Kleek, in cui i Bluesbreakers (ancora senza Clapton, e con Roger Dean alla chitarra) avevano registrato dal vivo nel 1965 il loro 1° Lp, per inciderne il seguito, Blues Breakers, accreditato al bandleader ma che in copertina riporta anche il nome della nuova guest star. «Quando registrammo quell’album», ricorderà Mayall nel 2014 al giornalista Mike Mettler, «Eric si mise a suonare [in sala d’incisione] allo stesso volume con cui suonava durante le esibizioni dal vivo. Suonavamo tutti come se fossimo on the road, e allora quella era una cosa piuttosto inedita». Il fonico della Decca (forse Gus Dudgeon, futuro braccio destro di Elton John) ebbe a ridire, ma il produttore Mike Vernon – un altro bianco folgorato sulla via del blues afroamericano e titolare dell’etichetta Blue Horizon – replicò convinto: «No, è così che deve suonare. Preoccupati solo di far girare i nastri».

Venne fuori così quel suono chitarristico feroce e prepotente che marchia a fuoco 1 disco che Deram/Decca spedì nei negozi nel luglio 1966 in versione monofonica; e di cui solo 3 anni dopo (nel novembre 1969) venne approntato anche un missaggio stereo approfittando dell’evoluzione tecnologica che in quel momento consentiva di superare finalmente i limiti imposti dalla registrazione su 4 tracce. La quieta e ordinaria immagine di copertina (che ritrae i musicisti seduti su un basamento in pietra dalle parti di Old Kent Road nel Sud Est di Londra: Mayall col pizzetto a sinistra, lo schivo Clapton al suo fianco del tutto disinteressato alla session fotografica e intento a leggere un numero del giornale a fumetti Beano) non lasciava presagire la tempesta scatenata in quei solchi. Il collegamento diretto dello strumento di Clapton al suo ampli senza alcun isolamento faceva sì che il suono della sua chitarra debordasse e venisse catturato da tutti i microfoni posizionati in studio esaltandone ulteriormente la potenza e il timbro preciso e squillante: era l’arma segreta e micidiale di 1 album che metteva a frutto un’intesa già ampiamente rodata in concerto e che ancora oggi suona esplosivo e travolgente, pervaso dal fervore messianico e dall’entusiasmo di chi ha appena scoperto una nuova religione o una ragione di vita.

Dinamico e avvincente nei suoi cambi di tempo, All Your Love di Otis Rush è il 1° di una serie di classici rivisitati dalla band ma mai la si era ascoltata in una veste così aggressiva, neppure quando a eseguirla era il suo autore. Ancora più stupefacenti erano gli strumentali: prima il veloce boogie shuffle di Hideaway con un potente giro di basso, l’organo di Mayall e il fragore dei piatti percossi da Flint a sostenerne l’impalcatura mentre dalla chitarra zampillavano lapilli di lava che portavano a ebollizione la temperatura, molto più controllata nella versione originale di Freddie King; poi Steppin’ Out di Memphis Slim, che Clapton avrebbe ripreso poco dopo nei Cream e che qui i 4 rielaborano circondati dallo scintillìo degli ottoni suonati da Alan Skidmore (sax tenore), Johnny Almond (sax baritono) e Derek Healy (tromba). La stessa sezione fiati irrobustisce Key To Love, un originale del bandleader che avrebbe potuto appartenere alla Graham Bond Organisation; e un’entusiasmante cover di Parchman Farm, rielaborazione a opera di Mose Allison di un vecchio blues di Bukka White: l’armonica di Mayall innesca un dialogo fitto con la sua voce replicando un modulo già proposto, sul primo lato dell’Lp, in un’altra sua composizione intitolata Another Man (senza altri strumenti se non i battimani che ne scandiscono il ritmo) e ripetuto in coda al disco in It Ain’t Right di Little Walter.

Del capo banda, ma in perfetta sintonia con lo stile degli standard, sono anche Little Girl, punteggiata da un riff classico e immediatamente riconoscibile; e Have You Heard, uno slow blues accarezzato dal sax di Almond e dall’organo dell’autore prima dell’ennesimo, devastante intervento della solista di Clapton, che in Blues Breakers fa anche il suo timido debutto come cantante solista in Ramblin’ On My Mind del suo idolo Robert Johnson: John lo asseconda al pianoforte come nella tagliente Double Crossing Time, firmata in coppia dai 2, ispirata (pare) dalla prima, fugace apparizione di Jack Bruce nei Blues Breakers e dalla sua fuga in direzione dei Manfred Mann, già registrata una prima volta nel 1965 e dove è la separazione dei canali stereo a permettere di gustare al meglio le raffinate sovraincisioni di chitarra di Slowhand (così battezzato dal manager Giorgio Gomelsky evocando i lenti battimani, handclaps, con cui dal vivo il pubblico era solito accompagnare i frequenti cambi di corde spezzate dai suoi furiosi bending).

L’unica concessione al pop arriva alla fine della prima facciata con What I’d Say, il capolavoro rhythm & blues di Ray Charles la cui inclusione nell’album venne osteggiata da Vernon (convinto non a torto che l’originale fosse imbattibile), quando Clapton riprende brevemente il riff eseguito da George Harrison nella beatlesiana Day Tripper dopo un’introduzione di basso e organo mentre Flint si ricava lo spazio per un assolo di batteria. Come a dire: siamo qui, nel 1966, e teniamo le orecchie aperte; non siamo dei meri revivalisti ma gente del nostro tempo. Non avrebbero avuto bisogno di ricordarlo, perché il loro era un blues e un r&b supersonico da space age che sembrava voler esplorare i confini della musica black in una dimensione fino a quel momento sconosciuta. Arrivò al N°6 delle classifiche britanniche, ma soprattutto ebbe un effetto dirompente sulla scena musicale: dopo la sua uscita nei negozi tutti i chitarristi vollero cimentarsi a loro volta con Hideaway e Steppin’ Out, qualsiasi band cercò di emulare quel sound e persino il giovane Jimi Hendrix ne restò folgorato.

Era il 1° mattone di un genere passato alla storia come blues rock, l’inizio di un’epopea: «Merito della qualità complessiva dell’esecuzione e del fatto che Eric in quel preciso momento fosse assolutamente unico», spiegò Mayall nel 2020 alla rivista Guitar World. Blues Breakers, aggiunse, era la testimonianza di quanto, pur così giovane, avesse una grande padronanza del blues e della sua chitarra: «Era decisamente avanti sui tempi e credo che quell’album catturasse molto bene tutto questo», chiosò con modestia. Ma senza di lui, senza il padrino del British Blues, il suo incoraggiamento, la sua lucida visione e la sua ferma direzione artistica, tutto questo non sarebbe accaduto: Clapton lo ha riconosciuto anche nell’omaggio postato in questi giorni, sottolineando che fu Mayall a spingerlo a cercare dentro di sé le motivazioni profonde della sua musica e a trovare il coraggio di esprimersi senza timori e senza limiti. Blues Breakers è stato, e rimane, il 1°, straordinario risultato di quei preziosi insegnamenti.

John Mayall, Blues Breakers With Eric Clapton (1966, Deram/Decca)