Risale all’estate del 1970 il 3° e omonimo Lp degli Humble Pie, schiacciato (nella memoria collettiva) fra l’incudine e il martello dei 2 unici grandi successi del quartetto inglese: il singolo di debutto Natural Born Bugie, l’anno precedente N°4 delle classifiche britanniche; e l’album dal vivo Performance Rockin’ The Fillmore, che nel 1971 aprì loro le porte del mercato statunitense (N°21 nella chart di Billboard). È un disco di transizione, come da molti è stato definito; e dallo strano destino, nonostante sia indiscutibilmente uno dei vertici di 1 supergruppo agguerrito, compatto e anche poco fortunato, allora composto da un ex Small Faces (Steve Marriott), dal suo amico batterista Jerry Shirley, dall’ex bassista degli Spooky Tooth, Greg Ridley e dal babyface Peter Frampton, proveniente dagli Herd, nome emergente della musica inglese e cover star coccolata dalle riviste musicali dell’epoca. Tutti giovanissimi — 23 anni Marriott e Ridley, 20 Frampton, soltanto 18 Shirley – ambiziosi e vogliosi di spaccare il mondo.

Per curriculum, pedigree e carisma Marriott, voce rauca e ruggente da soul singer bianco ed esplosivo fascio di nervi compresso in 1 metro e 63 centimetri d’altezza, avrebbe dovuto esserne il leader naturale. Dopotutto non ci aveva pensato neanche 1 minuto a sfanculare gli Small Faces che non volevano saperne di aggiungere un altro chitarrista e cantante (Frampton) in formazione, si era conquistato grande credibilità presso il pubblico del rock con una sfilza di classici e aveva esperienza da vendere. Ma era anche deciso a mangiare una fetta dell’umile torta che aveva appena sfornato, a riprendere contatto con la realtà e a fare un bagno d’umiltà tenendosi, stavolta, un passo indietro: ecco perché i crediti compositivi dell’Lp sono divisi fra lui e i compagni di band, ognuno dei quali ha modo di ricavarsi uno spazio alla luce del sole.

Sono comunque la sua pungente chitarra elettrica, il suo Wurlitzer e la sua voce, alternata a quella di Frampton e ai caldi timbri del suo organo Hammond, a fare di Live With Me un’apertura da standing ovation, un piccolo capolavoro misconosciuto: quasi 8 minuti di puro sound anni 70, frutto di un’arroventata jam di studio in cui gli Small Faces incontrano gli Spooky Tooth e i Pretty Things; i Traffic più black si mescolano ai Pink Floyd dei momenti più blues di Atom Heart Mother; la musica dei neri di Chicago si contamina con la morente psichedelìa e con il nascente hard rock. È un trancio di musica spontanea e non edulcorata che incarna perfettamente 1 tempo e 1 luogo, la Londra di quegli anni, e che viene voglia di riascoltare a ripetizione sperando che prima o poi qualche film, serie televisiva o tiktoker lo riporti all’attenzione di un pubblico intergenerazionale e gli renda finalmente giustizia.

Erano freschi di contratto con la A&M di Herb Alpert e Jerry Moss, i 4; e il loro nuovo manager americano Dee Anthony li spingeva con insistenza verso un approccio più ruvido e più aggressivo sia in studio sia dal vivo («Voglio vedere scorrere una pinta di sangue su quel palco!», disse per motivarli prima delle performance al Fillmore East di New York da cui trassero l’epico doppio live). Eppure Humble Pie non vive solo di quello, ma bilancia la forza bruta con la delicatezza, l’intensità con la leggerezza grazie anche alla nitida produzione di un manico come Glyn Johns che si era fatto le ossa proprio con Small Faces e Spooky Tooth oltre che con i Rolling Stones, i Led Zeppelin, Chris Farlowe, i Move, i Traffic, i Family e i Procol Harum.

Quel lato easy e spensierato della musica degli Humble Pie emerge soprattutto in Only A Roach, numero countreggiante con Marriott al piano e Frampton alla chitarra acustica, che Shirley (autore del pezzo) canta celebrando le virtù della cannabis mentre Willie Wilson (vecchio amico di David Gilmour a Cambridge fin dai tempi pre Pink Floyd dei Jokers Wild) siede al suo posto alla batteria e lo specialista B.J. Cole tesse le sue trame alla pedal steel. Pur originario del Middlesex inglese, quest’ultimo era la scelta obbligata quando si volevano evocare quelle sonorità americaneggianti e country rock che tornano protagoniste in Theme From Skint (See You Later Liquidator), una satira in musica che Marriott (qui impegnato anche ai tamburi) dedica alla bancarotta della Immediate Records, etichetta fondata dall’ex manager dei Rolling Stones, Andrew Loog Oldham, che aveva lasciato il gruppo in braghe di tela dipingendosi come un musicista in bolletta, ingenuo e costantemente buggerato da gente molto più smaliziata di lui.

Per converso, le toste One Eyed Trouser Snake Rumba e Red Light Mamma, Red Hot! sono 2 torridi boogie rock che anticipano i Pie del futuro prossimo venturo dando soddisfazione ad Anthony, con la chitarra di Steve che romba come una motocicletta a 2 tempi e (nel 2° brano) un’armonica da blues del Delta, mentre il pezzo esplode in un’altra jam e nel finale Shirley tiene il tempo con un campanaccio. E che dire di I’m Ready? La cover del brano di Willie Dixon portato al successo da Muddy Waters nel 1954, calca gli stessi terreni di Zeppelin e Jeff Beck dando filo da torcere a entrambi. Di tutt’altra pasta i brani in cui è il fraseggio chitarristico molto più pulito ed elegante di Frampton a decorare il progressive folk di Earth And Water Song (una sua delicata composizione con Steve alle tastiere) e la conclusiva Sucking On The Sweet Wine, con l’autore Ridley voce solista e alla seconda chitarra: un inno alla musica che sa confortarti e commuoverti facendoti sperare in un futuro migliore e in un genere umano più disposto a vivere in armonia, per certi versi simile a quelle struggenti e oneste ballate con il cuore in mano che avrebbero punteggiato la carriera solista di Ronnie Lane, vecchio compagno d’armi di Marriott.

Malgrado tutto questo ben di dio (e giusto un paio di pezzi in tono minore), Humble Pie è ricordato soprattutto per la celebre e raffinata copertina gatefold in rilievo che riproduce 2 famose opere d’arte: sul fronte, The Stomach Dance, esotica ed erotica illustrazione in bianco e nero creata nel 1894 da Aubrey Beardsley per l’edizione inglese della Salomè di Oscar Wilde; sul retro, la seconda versione del dipinto a olio Hope realizzato dal pittore simbolista George Frederic Watts. Ma va riapprezzato anche il valore artistico della musica contenuta nei suoi solchi, incisi poco prima che Frampton spiccasse il volo verso una carriera solista pop ricchissima di soddisfazioni e Marriott, vittima costante dei suoi demoni e delle sue dipendenze da alcol e cocaina, prendesse in mano le redini del gruppo guidandolo alla (effimera) conquista dell’America e tenendolo in vita per un’altra dozzina d’anni ma senza più ritrovare il filo di quella ispirazione.

Humble Pie, Humble Pie (1970, A&M)