Il suono del 1965, in Inghilterra, era qualcosa di inaudito. Un vento fresco, frizzante, impetuoso, elettrico. Era Rubber Soul dei Beatles, era (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones, era My Generation degli Who, era Tired Of Waiting For You dei Kinks. Ma era anche il rhythm & blues torrido e feroce della Graham Bond Organization, incarnazione perfetta dei roaring Sixties: i ruggenti e swinganti anni 60 londinesi. Ruggente, in senso letterale, era il loro sound; e in particolare il timbro sporco e ruvido dell’Hammond del bandleader (l’ “organ ” indicato nel nome del gruppo) così come quello della sua voce tonante, bellicosa e ben poco aggraziata che dialogava con l’agile sax tenore di Dick Heckstall-Smith e con la migliore sezione ritmica d’Albione: Jack Bruce e Ginger Baker, fratelli coltelli nonché impareggiabili maestri del groove e delle escursioni soliste fuori dagli schemi.

Arrivavano tutti dalla scuola del professor Alexis Korner e dai suoi Blues Incorporated, che avevano lasciato per tentare strade più impervie e avventurose anche perché la loro dieta musicale aveva sempre affiancato robuste dosi di jazz alle 12 battute e la loro visione strumentale era più ampia e articolata: Bond suonava il sax alto oltre all’organo, Bruce aveva iniziato studiando pianoforte, Baker cimentandosi alla tromba. Quell’anno, il 1965, trovarono nella capitale una miriade di club – il Marquee, il Klooks Kleek, il Ricky Tick, il 100 Club – pronti ad accogliere a braccia aperte quella musica nuova e rumorosa che spingeva irresistibilmente il pubblico a scatenarsi sulla pista da ballo dopo avere carburato con l’alcol e gli additivi chimici. «Un tipico concerto di Graham Bond era sempre una cosa eccitante», ha ricordato il veterano giornalista inglese Chris Welch. «Baffuto e traboccante di feroce entusiasmo, il leader sedeva dietro il suo organo Hammond e ogni tanto afferrava il suo sax alto per soffiarci dentro e duettare con se stesso, oppure urlava nel microfono, rivolgendosi al pubblico o agli altri musicisti, e strillava furiosamente Arrrggghhhh!».

Ginger Baker, Jack Bruce, Graham Bond, Dick Heckstall-Smith

Welch scrisse anche le note di copertina originali di The Sound Of 65 consegnandole su un foglio di carta dattiloscritto all’australiano espatriato Robert Stigwood, allora spiantato manager in cerca di fortuna e poi miliardario magnate baciato dall’enorme successo dei Cream, di Eric Clapton, dei Bee Gees e di Saturday Night Fever. Non andò allo stesso modo con la GBO, anche se la band riempiva all’inverosimile i posti in cui suonava ed era guardata con rispetto e riverenza dai colleghi. Forse non avevano il physique du rôle, con quell’aspetto un po’ preoccupante di chi non avresti voluto incontrare di notte in un vicolo di Soho: soprattutto Bond, corpulento, baffi spioventi e aria vagamente mefistofelica; e Baker il leggendario hellraiser, il pestifero piantagrane dai capelli rossicci sempre pronto a metterla in rissa. Con chiunque, ma anche e soprattutto con l’amico-nemico Bruce, terremoto scozzese piccolo di statura e un po’ sdentato; mentre con la sua calvizie, il suo pizzetto e la sua coppola, Heckstall-Smith subentrato a un altro fenomeno come il chitarrista John McLaughlin, aveva l’aspetto di un beatnik newyorkese già più in là con gli anni (ne aveva 32 compiuti, in effetti: 3 più di Bond, 5 più di Baker e 9 più di Bruce).

Sul palco però erano un combo esplosivo e in quel 1° album di una breve carriera cercarono – riuscendovi, almeno in parte – di catturare il fulmine nella bottiglia riproducendo l’energia del loro live show con un cocktail alcolico a base di cover e di canzoni originali firmate in gran parte da Graham. Tra gli standard alcuni erano famosi e frequentatissimi da tutti i colleghi del giro blues/r&b revival, ma nessuno li suonava come loro: che sapevano avvolgere in un alone quasi lugubre il magico incantesimo voodoo di Hoochie Coochie Man, resa celebre da Muddy Waters e in perfetta sintonìa con gli interessi di un leader irresistibilmente attratto dall’occulto, dall’esoterismo e dagli scritti di Aleister Crowley (fino a convincersi, lui cresciuto in un orfanotrofio, di essere suo figlio); spingere oltre i limiti di velocità con la loro fuoriserie un altro classico watersiano, Got My Mojo Workin’, lasciando Heckstall-Smith libero di librarsi in aria con il suo sassofono; e incorniciare Wade In The Water, celeberrimo spiritual, con un fraseggio d’organo bachiano per poi trasformarlo in una scatenata jam strumentale.

Era Bruce ad esserne accreditato come coarrangiatore; ed era lo scozzese ad accodarsi a Bond come 2° cantante e songwriter utilizzando lo pseudonimo di John Group talvolta accanto alla moglie Janet Godfrey, mentre si prodigava magistralmente fra contrabbassi e bassi elettrici anche a 6 corde usati come stantuffi ritmici ma anche per creare inventivi contrappunti melodici. In Baby Make Love To Me, notturna, sinistra e inquietante come una passeggiata a ore tarde in un quartiere malfamato, fa il suo esordio la sua armonica lancinante, poi gran protagonista (insieme alla sua voce solista) nello shuffle di Train Time, uno sbuffo ritmico e spasmodico di vapore che diventerà per lui un vero cavallo di battaglia tanto da essere recuperato nelle setlist dei Cream; mentre Baby Be Good To Me, swingante e dinamica, è un altro contributo originale suo e di Janet.

Nell’arrangiamento ideato da Bruce del traditional Early In The Morning sembra di ascoltare una chitarra elettrica, mentre il botta e risposta a 2 voci evoca un canto da lavoro nelle piantagioni del Mississippi o forse, chissà, in una fabbrica della Rivoluzione Industriale inglese; appena prima, nell’altra cover Neighbour, Neighbour, è invece Bond a impersonare il tipaccio che invita il vicino di casa a stare alla larga dalla sua abitazione con quella postura aggressiva aderente alla cifra stilistica del quartetto e alle sue esibizioni live, dove Jack e Ginger si azzuffavano con corollario di pugni e coltelli sui volumi dei rispettivi strumenti.

In studio tutto era più bilanciato e controllato; e Baker brilla ovunque con il suo kit di batteria costruito a mano piegando alla bisogna fogli di plexiglass: usa i piatti con grande parsimonia, saltella come un furetto selvatico fra i tamburi da buon discepolo di Max Roach ed Elvin Jones e sfoggia il suo amore smisurato per i ritmi africani nella danza moresca di una Spanish Blues ballata a mattonella dall’Hammond e dal soprano di Bond. Subito dopo si piglia tutte le luci dei riflettori con Oh Baby, una scatenata danza tribale in cui gli effetti eco amplificano i suoi fraseggi di rullante prima di un crescendo in cui il fronte percussivo si alza come un cavallone oceanico fra tom tom, grancassa e piatti. È la prova generale di Toad, il suo momento di gloria ai tempi dei Cream; e il suo primo assolo di batteria registrato in studio: lascerà tanti colleghi a bocca aperta aprendo la porta a una moltitudine di epigoni.

Autore di entrambi i pezzi, Bond non era un accentratore e sapeva lasciare il giusto spazio ai compagni, ben consapevole delle loro qualità stellari: in The Sound Of 65 si prende la scena in una più rilassata Little Girl, numero da night club in cui modella la voce sullo stile del suo idolo Ray Charles; e in i Want You, dove Baker soffia in una tromba e apparecchia un corredo ritmico in gran spolvero e più convenzionale. I turbinosi effetti Leslie d’organo di Half A Man introducono l’ultimo e inatteso momento del disco: dove un Graham un po’ impacciato indossa gli improbabili e per lui strettissimi panni del cantante confidenziale misurandosi con una cover della ballata sentimentale Tammy: pop song proveniente dalla colonna sonora di un film del 1957 e lì cantata con successo da Debbie Reynolds, la protagonista femminile della pellicola. La Columbia e il manager del gruppo concordarono di farla uscire anche come 45 giri, nella speranza di fare breccia nella Top 10 britannica. Niente da fare: secondo Pete Brown, poeta beat, cantante, amico del gruppo e futuro paroliere dei Cream, Stigwood «non sapeva un cazzo di produzione discografica. Stava solo cercando di fare i soldi e non capiva cosa aveva in mano».

Lo capirà poco dopo, quando, associandosi ad Eric Clapton, Jack Bruce e Ginger Baker daranno vita al 1° supergruppo della storia del rock conquistando stadi, arene, classifiche e fama mondiale, mentre Heckstall-Smith troverà gloria nei Colosseum e McLaughlin con la Mahavishnu Orchestra. Solo Bond – il leader, il mentore, l’iniziatore di tutto – resterà con il cerino in mano, tentando una poco fortunata svolta musicale esoterica-psichedelica e finendo vittima di un gorgo di droghe, alcol e pratiche magiche fino alla morte avvenuta in circostanze misteriose, l’8 maggio 1974, sotto le ruote di un treno della metropolitana londinese nella stazione di Finsbury Park.

The Graham Bond Organization, The Sound Of 65 (1965, Columbia)