2 anni fa, in luglio, un lampo improvviso aveva riacceso vecchi entusiasmi. Su Samadhisound, il suo account Vimeo, David Sylvian aveva pubblicato un filmato amatoriale girato nel 1983-84 con una videocamera dalla fotografa giapponese e allora sua compagna Yuka Fujii agli Hansa Studios di Berlino, durante le sedute di registrazione di Brilliant Trees. 40 minuti d’immagini sgranate ma a colori, ordinate in sequenza cronologica, intriganti e rivelatrici. Il chitarrista afroamericano Ronny Drayton che ricava dalla sua Stratocaster stridenti accordi quasi hendrixiani. David, calmo e rilassato, che spiega una sequenza di accordi e di strofe a un Ryuichi Sakamoto attento, concentrato e ancora poco a suo agio con la lingua inglese davanti a un pianoforte a coda. Il tedesco Holger Czukay (bassista e polistrumentista nei Can) che estrae strani suoni campionati dal suo dittafono prima di cimentarsi in un assolo alla chitarra elettrica su Red Guitar, scartato dall’editing finale del disco. E il trombettista americano Jon Hassell che discetta di raga indiani e di teoria musicale prima di mettersi a soffiare nella sua tromba modulata elettronicamente con un harmonizer.

«A mia memoria, una delle esperienze di registrazione più felici che abbia mai fatto, nel periodo in cui ero sotto contratto con una major», ricordò Sylvian nell’occasione. «Dopo essere riuscito a fare incontrare tutti quanti a Berlino, una città di cui nessuno di loro era originario, la cosa assunse il sapore di un’avventura. Tutti arrivarono con uno spirito aperto e ricettivo».

David Sylvian

Da lì, dal cuore della Mitteleuropa, prese forma 1 dei dischi più belli, enigmatici e misteriosi degli anni 80. Straordinario (nel senso letterale del termine) e anche inatteso, perché Sylvian, reduce dall’esperienza quasi decennale nei Japan con cui aveva sviluppato un pop elettronico dalle sfumature esotiche e sofisticate, era allora una giovane e fascinosa star da copertina perfetta per MTV e per l’era dell’immagine: un dandy 25enne con il capello biondo, mosso e cotonato come quello di George Michael; i lineamenti nobili, delicati e androgini; una voce profonda e quasi attoriale; un percorso musicale che già aveva trovato un buon compromesso fra art rock e mainstream.

Aveva accumulato un bel credito nei confronti della sua casa discografica, la Virgin, e decise di spenderlo giocando d’azzardo. Ebbe ragione, perché pur senza diventare un hit milionario l’album raggiunse il N° 4 delle classifiche inglesi conquistandosi a 10 anni di distanza 1 disco d’oro per le oltre 100.000 copie vendute (risultato mai più raggiunto dal Sylvian solista). Era arrivato il momento di rischiare, di crescere, di progredire. Di «pescare al buio», come raccontò lui stesso. Per la prima volta orfano di un gruppo, David se ne ricostruì idealmente un altro, almeno per il tempo in cui rimase in studio insieme al coproduttore e fonico Steve Nye con cui si era creato un rapporto stretto ed empatico: «Furono le stesse composizioni a richiedere a gran voce la presenza di certi collaboratori. Io ho solo cercato di obbedire a quella chiamata», spiegò 20 anni dopo.

Del dream team facevano parte altri due ex Japan: Richard Barbieri, presente in un paio di brani al sintetizzatore e Steve Jansen, fondamentale e duttile propulsore ritmico con la sua batteria e le sue percussioni registrate nella grande sala principale degli Hansa mentre gli altri musicisti erano confinati nel suo angusto scantinato; il minimalista ed elegante Sakamoto, riconvocato dopo il grande successo commerciale e di critica di Forbidden Colours, incisa l’anno prima in duo per la colonna sonora del film Furyo alias Merry Christmas, Mr. Lawrence; 2 avanguardisti dirompenti e discepoli di Karl-Heinz Stockhausen quali Czukay e Hassell; e poi i chitarristi Drayton e Phil Palmer, il contrabbassista Danny Thompson (Pentangle), il bassista elettrico Wayne Brathwaite, Mark Isham alla tromba e Kenny Wheeler al flicorno. Riuscì nell’intento di farli sembrare come una vera band e non come un manipolo di turnisti mercenari, anche se si avvicendarono in studio in momenti diversi e anche se, come ha ricordato Anthony Reynolds nel suo libro Cries And Whispers, Hassell si limitò a un’unica session di 5 ore in cambio del pagamento immediato di 5.ooo dollari e del riconoscimento di un credito compositivo nei 2 brani a cui prese parte.

Sylvian riuscì a convincerlo a suonare una volta tanto alla “occidentale”, adattando quel suo personalissimo suono “nebbioso” e immateriale ai brani della seconda facciata, la parte più esoterica e meditativa di un Lp che sul lato A iniziava invece con i singhiozzi funk jazz di Pulling Punches; Drayton, Palmer, Brathwaite e Jansen incaricati di scandire il groove mentre Isham attorcigliava fraseggi alla Miles Davis, Czukay ricreava al dittafono una sezione fiati virtuale e il frontman cominciava con il suo eloquio signorile e distaccato a esplorare i temi ascetici e introspettivi del disco confessando la sua insoddisfazione nei riguardi del Cristianesimo e delle nuove religioni new age, i suoi sforzi di capire il senso della vita, la rabbia e la frustrazione provati nel tentativo fallito di comprendere la realtà circostante. Vittima, anche lui, di quel modo «di vivere la propria vita pensando di sapere ciò che fai mentre in realtà stai dormendo in piedi, non ne hai alcuna idea e non hai alcun controllo» (l’idea del sonno a occhi aperti l’aveva presa direttamente dal pensiero del compositore, mistico e maestro spirituale Georges Ivanovič Gurdjieff).

Subito dopo rallentava il ritmo e conteneva quell’inusuale sfogo d’aggressività abbandonandosi alle meditazioni di The Ink In The Well e di Nostalgia, 2 meravigliosi microcosmi di pop filosofico e psicanalitico lontanissimi dalla musica che si sentiva allora in radio e in televisione. Con il suo inappuntabile aplomb, David cantava di rimpianti e di spettri del passato, di rami metaforicamente da sfrondare, del suono cupo e profondo delle onde che si irradiano in uno stagno. Entrambi i pezzi avevano preso forma ai Church Studios di Londra, dopo le session berlinesi: Nostalgia come una meravigliosa ballad ambient, un poetico affresco ornato dagli svolazzi del flicorno di Wheeler e cantato da una voce che quasi sembrava spezzarsi sotto il peso del suo spleen esistenziale; The Ink In The Well (1 dei 3 singoli del disco), avvincente midtempo folk jazz imperniato su una chitarra acustica che Palmer conduceva in libertà intorno a una sequenza non ortodossa e a volte dissonante di accordi e sul contrabbasso agile e potente di Thompson; un suono di gran carattere e personalità che Sylvian aveva imparato ad amare ascoltandolo nei dischi a lui cari di John Martyn e di Nick Drake. Il testo citava Guernica di Pablo Picasso, L’âge de raison di Jean-Paul Sartre e Le sang d’un poète di Jean Cocteau, le cui opere visuali esercitavano allora una fortissima influenza sul musicista inglese: «Per diverso tempo ho sentito davvero la sua presenza», ha confermato anni dopo. «Sapeva rendere tangibile il mondo invisibile».

Esattamente come Brilliant Trees, in quel suo passaggio graduale e progressivo dalla forma canzone del 1° lato all’astrazione meditativa della seconda facciata. Prima di arrivarci si passa per Red Guitar, il singolo che arrivò al N° 17 in Inghilterra portando Sylvian ad esibirsi in tv a Top Of The Pops: il brano (apparentemente) più semplice e immediato del disco, lo specchietto per le allodole destinato ad attirare il pubblico più distratto e i nostalgici dei Japan. «La scrissi a casa una mattina mentre ero in uno stato di torpore indotto dalla droga. Realizzai tutto il disco sotto l’effetto della coca, non riuscivo a dormire in quel periodo e mi ero detto che assumerla regolarmente fosse meglio che sentirmi costantemente esaurito», ha confessato David aggiungendo che il testo «simboleggia in un certo senso il significato dell’arte. Il mio mezzo di espressione, ‘il mio vizio e la mia virtù’, come dice il ritornello, una cosa che mi procura il massimo del piacere e dell’afflizione».

Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet, l’Iron In The Soul di Jean-Paul Sartre e La Difficulté d’être di Jean Cocteau sono i suoi riferimenti culturali espliciti: non proprio le tipiche banalità sentimentali da Top Of The Pops, insomma, ma concetti “alti ” esposti servendosi di una musica uptempo in cui il funk di Drayton e Braithwaite incontra le spirali della tromba di Isham confermando che anche nel suo momento più easy il pop di Brilliant Trees aveva tanti strati di lettura e una profondità ignota al decennio dell’apparenza e dell’edonismo spensierato.

Quando la puntina scivola oltre gli ultimi solchi e si gira il disco, lo stacco è netto: l’andamento ipnotico e flessuoso di Weathered Wall, i loop ossessivi e quasi industrial di Backwaters e la title track conclusiva formano quasi un unicum, una sola sequenza risolutiva. È il momento in cui Sylvian s’interroga sulla presenza di un’entità superiore che tutto governa e al tempo stesso accetta la realtà della vita terrena (“Il mio intero mondo sta davanti a me/nello sguardo dei tuoi occhi/la mia intera vita mi si dipana davanti/stendendosi come un fiore/e riportando la mia esistenza al suolo”). È il momento di Hassell e di Czukay, delle loro astrazioni sonore, delle loro improvvisazioni e delle loro manipolazioni elettroniche in cui David si tuffa con entusiasmo assistito dall’organo chiesastico di Sakamoto, combustibile leggero di una mongolfiera che solo le percussioni di Jansen tengono momentaneamente ancorata a terra.

Si ha l’impressione di avere completato un pellegrinaggio e di avere raggiunto un monastero sulle alture, mentre la voce di Sylvian, placida e autorevole, racconta la bellezza sconfinata della natura e la scoperta di sé, la potenza del creato e la pace interiore anticipando inconsciamente il suo imminente incontro con gli insegnamenti della Cabala ebraica e con il concetto simbolico dell’Albero della Vita. «Lì il narratore trova finalmente redenzione nell’amore umano, che per lui si collega al divino», spiega a proposito dei quei 8 minuti e 39 secondi di magia e perfezione assoluta chiusi da una coda strumentale ipnotica come un mantra o il suono delle campane tibetane.

La vibrazione del cosmo in sintonia con le frequenze interiori, una seduta di meditazione in musica, un’esperienza magica e trasformativa amplificata dall’ascolto al buio o a occhi chiusi: ogni volta se ne esce diversi, più sereni e consapevoli, più in armonia con se stessi e con quel mondo invisibile evocato da Cocteau.

David Sylvian, Brilliant Trees (1984, Virgin)