Da dove cominciare, per spiegare l’importanza storica del 2° album dei Colosseum? Dalla copertina, dall’etichetta della prima stampa o dalla musica che contiene? Procediamo con ordine, partendo dalla famosa immagine riprodotta sulla busta esterna del disco: una diafana modella bionda con una sorta di peplo bianco, in posa tra 2 enormi candelabri in mezzo ad arbusti di un colore innaturale fotografati con una pellicola a infrarossi. Sembra una dea dell’antica Grecia proiettata dentro a un paesaggio fantastico e ultraterreno, ritratta con uno stile poi divenuto inconfondibile dal designer e fotografo Marcus Keef, autore poco dopo dell’altrettanto iconica cover del 1° e omonimo album dei Black Sabbath.
Numero 06, quello, nel catalogo di una leggendaria etichetta inaugurata nel novembre del 1969 proprio con Valentyne Suite: la Vertigo, ideata dal manager olandese Olav Whyper sotto l’ala protettrice di Philips e Phonogram e destinata a setacciare il panorama allora in forte espansione del rock underground. Nei suoi primi anni di vita, a quella casa discografica cool e di tendenza si legheranno artisti quali Juicy Lucy, Rod Stewart, Cressida, Affinity, Uriah Heep, Nucleus, Keith Tippett, Warhorse, Patto, Gentle Giant, Jade Warrior, Ben, Beggars Opera, i greci Aphrodite’s Child, gli Status Quo e tanti altri, con una serie di dischi amati e ricercati dai collezionisti anche per quello splendido logo con la spirale in bianco e nero che girando a 33 giri e ⅓ di velocità sui giradischi produceva un effetto ottico ipnotico e sembrava volerti risucchiare fra i solchi del vinile.
Colosseum
La musica era altrettanto seducente (e pionieristica): un gorgogliante intruglio di jazz, rock & blues autenticamente “progressivo ”, rodato e affinato in mesi di frenetica attività live da un quintetto di virtuosi di varia estrazione musicale che in quegli anni gravitavano intorno alla capitale europea della nuova musica, Londra: il fondatore, bandleader e funambolico batterista Jon Hiseman, il più anziano sassofonista e flautista Dick Heckstall-Smith (la cui calvizie tradiva un’età più matura, 35 anni) e il bassista Tony Reeves erano tutti reduci da una breve esperienza nei Bluesbreakers di John Mayall; il tastierista Dave Greenslade era figlio di un celebre arrangiatore orchestrale e James Litherland (padre del noto cantautore James Blake) un chitarrista che se la cavava bene anche come cantante e che avrebbe lasciato la band per formare un suo gruppo, Mogul Thrash, prima che l’Lp arrivasse nei negozi.
Sapevano suonare di tutto e lo dimostrarono con questo ambizioso disco in cui sembravano voler sfidare tutti i pesi massimi dell’epoca. I già disciolti Cream, a cui il power trio Hiseman-Reeves-Litherland sembra voler replicare fra i vorticosi e serpentini riff hard blues/psichedelici di The Kettle, 32 anni dopo campionata e portata sulle piste da ballo da Fatboy Slim con il singolo Ya Mama, dove il drumming tentacolare di Jon e il basso nucleare di Jim inseguono la voce di James e le sue 2 strepitanti chitarre elettriche sovraincise.
I Traffic, con il flauto e l’organo protagonisti di The Machine Demands A Sacrifice – testo visionario e apocalittico del poeta beatnik Pete Brown, che di Jack Bruce, Eric Clapton e Ginger Baker era stato assiduo collaboratore storico – e l’agile groove di Elegy, con il romantico soprano di Heckstall-Smith in gran spolvero e un bell’arrangiamento per quartetto d’archi ideato da Neil Ardley, pianista e compositore jazz che con Hiseman e Reeves aveva lavorato nell’ambito della New Jazz Orchestra. E persino gli Emerson, Lake & Palmer in January’ Search, arrembante 1° tema della suite che intitola il disco occupandone tutta la seconda facciata e in cui l’Hammond, il pianoforte e il vibrafono di Greenslade galoppano come le tastiere di Keith Emerson in Tarkus.
“La Valentyne Suite ha il feeling di una storia d’amore, di quelle che divampano torride e poi si consumano ”, scriveva Hiseman nelle note di copertina dell’album, completate il 21 luglio del 1969 nel momento in cui Neil Armstrong compiva ‘un piccolo passo per l’uomo e un grande balzo per l’umanità ’; e lo stesso si può dire della musica, che fra il tema 2 (February’s Valentyne) e il tema 3 (The Grass Is Always Greener) corre e rallenta; alterna pause di riflessione a momenti convulsi; profumi di Spagna e di Marocco a reminiscenze classiche; flanger e wah-wah a cori ecclesiastici; assoli e dialoghi intricati; cambi di tempo e di mood; fermate e ripartenze in un crescendo tumultuoso d’intensità. Con un’energia (che a volte si trasforma in furore), una passione e una esplosività sconosciute a gran parte dei gruppi prog successivi: una musica che è jazz per attitudine e perizia strumentale, rock e blues per grinta, volume ed elettricità.
Questione anche di DNA e di background, perché Hiseman e Heckstall-Smith avevano militato qualche anno prima in 1 dei gruppi più innovativi e rivoluzionari dell’r&b revival inglese, la Graham Bond Organisation da cui avevano ripreso il loro 1° cavallo di battaglia Walking In The Park e al cui stile si rifanno esplicitamente le 12 battute di Butty’s Blues, un altro grande assolo del senior Heckstall-Smith mentre Greenslade si scatena all’organo (l’autore è “Butty” Litherland: così soprannominato in omaggio a un’espressione gergale dell’Inghilterra settentrionale “per la sua manìa di schiacciare qualunque alimento commestibile fra due spesse fette di pane ”).
L’argento vivo di quei tempi ruggenti ce l’avevano ancora addosso, i Colosseum, che in 3 giorni soltanto, fra il 16 e il 18 giugno del 1969 agli IBC Studios di Londra, fissarono su nastro quel repertorio ancora in evoluzione (il concept originale della suite aveva come 3° movimento Beware The Ides Of March, eseguita dal vivo ma inutilizzabile su disco perché già pubblicata nel 1° album Those Who Are About To Die Salute You). 2 mesi dopo (gennaio 1970) un Lp pubblicato solo sul mercato nordamericano, The Grass Is Greener, fotograferà una band in stato fluido durante il passaggio di testimone fra Litherland e il nuovo chitarrista Dave “Clem” Clempson, con 4 pezzi ripresi da The Valentyne Suite e altrettante registrazioni inedite.
Così erano i Colosseum, il rock e il jazz di quei tempi: frenetici, febbrili, in costante movimento, pronti a esplodere – o a implodere – da un momento all’altro. Accadde anche a loro, una prima volta, a meno di 2 anni di distanza da Valentyne Suite, a seguito di un altro disco di studio, di un doppio live e di altri cambi di formazione. Come Hiseman spiegò anni dopo nel corso di un’intervista concessa alla rivista italiana Il Popolo del Blues, «per 3 anni eravamo stati in tour senza sosta, spesso registrando in studio di giorno e suonando dal vivo di sera. In quei 3 brevi anni era come se ne avessimo compressi 10. Non potevamo fare altro che fermarci».
Colosseum, Valentyne Suite (1969, Vertigo)