Prima il rumore (molto rumore). Poi il silenzio (un silenzio non meno assordante, come ha ricordato anni dopo il giornalista e scrittore Michael Azerrad). Prima 8 anni trascorsi sull’ottovolante – i dischi, i tour, i concerti, i viaggi, gli alberghi, le droghe, l’alcol, le zuffe, le incomprensioni con i 2 compagni di band: soprattutto con il batterista, cantante e songwriter “concorrente” Grant Hart – poi il periodo di rustico isolamento e di riflessione introspettiva.

Sciolti gli Hüsker Dü, con cui aveva scritto pagine epiche dell’hardcore punk e dell’alternative rock americano, Bob Mould si ritrovò nel mezzo del nulla. Anche in senso letterale, geografico, dopo che nell’autunno del 1987 aveva abbandonato Minneapolis per andare a vivere insieme al compagno di allora in una fattoria di campagna a Pine City, 3.000 anime nel cuore del Minnesota a 1 ora di macchina dalle Twin Cities. Sobrio, ripulito, senza grilli per la testa e con nient’altro da fare se non badare alle galline che razzolavano in cortile e guardare gli amati incontri di wrestling in televisione, oltre a scrivere versi sul suo diario di lavoro, il suo workbook; e ad accennare accordi e melodie sulla chitarra acustica sempre a portata di mano. Forse non lo sapeva neanche, ma stava gettando le basi per il suo 1° album solista.

«Ci sono molte cose, in quel disco, che sono il riflesso del periodo in cui me ne restai seduto da solo con i miei pensieri», racconterà anni dopo alla rivista The Quietus, definendo Workbook «un disco molto introspettivo che contemplava il relitto mentre cercavo di andare oltre realizzando idee che erano soltanto mie». Scrive testi impressionisti, privi di logiche consequenziali ma pieni di annotazioni autobiografiche che non lasciano dubbi sul suo stato d’animo. Nel mezzo del gelido e crudele inverno del Minnesota scrive di dolori sentimentali e di anni avvelenati, di pomeriggi solitari, di peccati e pentimenti. Ma anche di improvvisi bagliori di luce e di speranza, di mappe geografiche virtuali in cui il Brasile incrocia il New Jersey, perché «quando vivi nel mezzo del nulla l’immaginazione corre selvaggia e scappa via». La sua 12 corde acustica, che ogni tanto faceva capolino nei dischi degli Hüsker, diventa una compagna fedele. E quando ha voglia di accendere l’amplificatore e di una scossa elettrica, al posto della vecchia Gibson Flying V che ha messo in soffitta imbraccia la Fender Stratocaster azzurra che ha visto un giorno appesa al muro in un negozio di strumenti musicali a Minneapolis: più adatta, è convinto, a riprodurre le sonorità liriche e melodiche che ha in mente.

A 29 anni, approdato qualche anno prima al circuito delle major discografiche con il contratto Warner, ha un grosso credito di credibilità da spendere sulla scena e sul mercato; e nella Virgin America (presso cui si sono accasati Steve Winwood, Warren Zevon e Ziggy Marley) trova una casa discografica pronta a dargli fiducia e un budget. Lui risponde con un disco che nessuno si aspetta: sovente più acustico che elettrico, molto più vicino allo stile di Pete Townshend e soprattutto a quello di Richard Thompson che alle sonorità del suo vecchio trio. «Quando qualcuno mi fece osservare le somiglianze [con Thompson], la cosa fu piuttosto imbarazzante. Nell’88, mentre in un certo senso stavo reinventando me stesso e scrivendo quello che sarebbe diventato Workbook, avevo espresso la mia volontà d’incorporare nella mia musica quegli elementi di folk celtico, le accordature alternative e i bordoni, certe accentuazioni che avevo già in testa. A quel punto ero già entrato in quella forma mentale e mi dissi “sia quel che sia».

Bob Mould

Un’altra cosa che ha in testa, dopo avere ascoltato su un cofanetto della Folkways canzoni folk appalachiane suonate con dulcimer e mandolini, è di aggiungere alla tavolozza sonora i colori caldi del violoncello. Jane Scarpantoni, che ha una formazione classica e ha appena suonato su Green dei R.E.M., è la persona giusta per tradurre e abbellire quelle sottolineature che Bob nei suoi demo aveva abbozzato al sintetizzatore. Quando poi arriva il momento di alzare le pulsazioni e il volume, a disposizione c’è una sezione ritmica formidabile, potentissima quanto versatile: Tony Maimone, bassista dei Pere Ubu; e Anton Fier, batterista dei Golden Palominos, entrambi forti di un background che abbraccia collaborazioni con decine di artisti e i generi musicali più diversi. Con loro e con Lou Giordano, il fonico di fiducia degli Hüsker Dü, Mould incide ai Paisley Park Studios di Prince le tracce base di un disco che gli spalancherà nuove prospettive.

La casa discografica si godrà il buon riscontro nelle radio “modern rock ” americane di See A Little Light, la canzone più uptempo, più pop, più ariosa e più ottimista del lotto; una reazione costruttiva allo sbando degli ultimi tempi con un suono di chitarra jingle-jangle che ricorda i R.E.M. e certi gruppi Paisley Underground del periodo. Bob, che a tutt’oggi continua regolarmente a proporla dal vivo, la colloca strategicamente come quarta traccia in una sequenza dall’incipit sorprendente. «Ho sempre pensato», spiega a The Quietus, «che il pezzo d’apertura e di chiusura di un disco ne siano gli elementi essenziali. Quando apri un disco cerchi di predisporne il palcoscenico e io vedo il tutto come una specie di rappresentazione teatrale: crei un motivo di cui la gente riascolterà le note anche in seguito». La scelta cade su Sunspots, uno strumentale acustico in fingerpicking e dal riff circolare che ci si sarebbe attesi magari da Steve Howe o da Michael Hedges, non da uno come lui, prima che in Wishing Well la voce di Bob inizi a tuonare cantando dei suoi desideri irrealizzati ed entrino di prepotenza la sezione ritmica e il violoncello mentre la chitarra elettrica si libera in un breve assolo bruciante e il fiume impetuoso di Workbook inizia a scorrere.

Malinconica e riflessiva, Heartbreak A Stranger gira intorno a un altro arpeggio magnetico e a progressioni folk rock innervate da una sottile inquietudine, ma subito dopo arriva Poison Years: il clima diventa ancora più perturbato, la tensione sale lentamente, la rabbia compressa è pronta a esplodere, la bocca di Mould sputa parole di fuoco e la Fender graffia e ruggisce prima di bloccarsi in feedback su una nota aspra e dissonante. In Sinners And Their Repentances Tutte le cose che ho fatto prima d’ora non hanno più importanza») emerge la voglia di dare un colpo di spugna al passato mentre tornano il violoncello e un’elegante, quasi eterea dimensione acustica e spariscono basso e batteria. Brasilia Crossed With Trenton è una visionaria road song che si dipana per oltre 6 minuti e ½ come un raga folk senza ritornello; e Compositions For The Young And Old avrebbe le potenzialità per diventare un 2° singolo. Ancora chitarre, riff e arpeggi in Lonely Afternoon: Mould fa i conti con la solitudine ma ringrazia di essere vivo, la voce si fa più robusta prima di elevarsi nel falsetto di Dreaming, I Am, intro delicata e ritmo che (involontariamente?) richiama i Police.

Intanto i sentimenti e i pensieri si aggrovigliano, i ricordi si affastellano, le paure s’intrecciano alle speranze di una vita migliore e arriva il momento della catarsi. «Il tuo epilogo, il tuo pezzo di chiusura, è il punto che chiude la frase prima che scorrano i crediti finali. Quel riff  bluesato e quella strana accordatura con la nota bassa un tono più sotto… che siano i Crazy Horse o i Fairport Convention, quando lo senti arrivare ti rendi perfettamente conto che non si tratterà di una canzone allegra». Non lo è, infatti. È una purificazione sul rogo. È Whichever Way The Wind Blows, un finale furibondo in cui Mould per la prima volta nel disco estrae dalle viscere la sua voce più gutturale; una sequenza di spasmi vocali che galleggia su un magma di suoni elettrici. Proprio in coda, è arrivato l’unico pezzo che ricorda gli Hüsker Dü più feroci. Quando Bob ammonisce conigli, tartarughe e galline di campagna a non attraversare la strada trafficata parla evidentemente a se stesso: “La conosco quella strada, è infida/le cammino di fianco, a destra”… “se deciderai mai di mettertici in viaggio/farai bene a tenerti di lato/con le mani sul volante/è una strada lunga da percorrere”.

Hüsker Dü: Greg Norton, Grant Hart, Bob Mould

Mould lo sa. Neanche quello sarà sempre un percorso facile, iniziato con la fine di una relazione importante, un trasferimento a New York e l’inizio di un’altra storia («Quando Workbook finalmente uscì, la mia carriera sembrava promettere bene mentre la mia vita personale sembrava una merda»). Ma prosegue ancora oggi, Bob 62enne con la barba bianca, la testa calva e gli occhiali da vista sopravvissuto ad altri successi (i Sugar) e a periodi di oblìo: sempre con quella Stratocaster azzurra a tracolla pronta a macinare riff e accordi combinando pop e distorsione, melodia e rumore, anche se un disco come Workbook non lo ha fatto più.

Bob Mould, Workbook (1989, Virgin America)