2 progetti diversi in termini di sfumature, sound, immaginari e sensazioni che riescono a toccare in modo profondo. Due volti contigui, come quelli della classica medaglia, separati da uno spessore che paradossalmente li unisce condividendone materia e colore che trovano nel vocalist e critico musicale Fabio Babini (firma storica di Psycho!, Metal Shock, Classix Metal, Classic Rock Lifestyle, Classix!) un denominatore comune tutt’altro che minimo.
2 band che si muovono fra cinema, pittura, letteratura e teatro, al netto di riferimenti musicali che denotano ricerca, passione, conoscenza profonda in grado di spaziare fra i generi con estrema disinvoltura, creando un legame più che corposo fra nomi noti e perle dell’underground a 360°.
2 album, infine, che nell’era del digitale vedono la transizione dall’incorporeità al supporto fisico come un approdo: dal momento che, come precisa Babini, «La diffusione liquida è efficace perché fai un click e hai tutto: è incredibile se paragonata al tape sharing degli anni 80 e ’90, ma nel marasma tutto si perde. Il prodotto fisico, invece, ancora oggi è qualcosa che resta. Con i Cd ci si asfaltano le strade in Cina… ma immaginiamo se per qualsiasi motivo tutte le piattaforme collassassero, proviamo a pensare a un ipotetico momento zero: cosa rimarrebbe? Per questo motivo è importante creare qualcosa che possa rappresentare, nel mondo fisico, una band, la musica che fa: anche graficamente, tangibilmente».
Anche per questo oggi parliamo di questi 2 dischi: il primo, Dancefloor Nostalgia dei Venus In Disgrace, è stato infatti pubblicato su Cd con l’aggiunta di un live che non si limita a trasmetterci il loro potenziale dal vivo, ma fornisce anche un gradevole storytelling sulla loro genesi e storia; Come Closer dei Petra Von Kant nasce invece come Cd, con l’idea di venire presto pubblicato anche in vinile. 2 diversi itinerari, che convergono però verso un unico punto di luce.
Dancefloor Nostalgia: l’elegia dei non luoghi dei Venus In Disgrace
Venus In Disgrace
Celebrazione della memoria, di un sound sintetico dotato di un cuore vivido e pulsante, il debut dei Venus In Disgrace ci porta fra le rovine di discoteche dismesse, templi della danza e dell’oblìo in cui elettronica e new wave erano un tempo il verbo. Un’operazione che nasce dalla necessità di dare corpo a un sogno lasciato nell’inconscio per oltre 20 anni, che nel 2020 viene ripreso, ridefinito, ricostruito a partire da demo di cui oggi, nei brani che costituiscono questo disco, resta magari solo una frase, una melodia. Un lavoro in cui al già citato Fabio Babini si aggiungono Max Varani (synth) e in alcuni episodi Simone H. Salvatori, voce degli Spiritual Front e Bez Yorke (Paxarmata, Lamalamela).
Nomi legati alla scena electro, breakbeat e neofolk capitolina, la cui presenza avalla il mood electro wave del disco, che si apre con una killer track d’antologia, evocativa a partire dal titolo ibseniano: Hedda Gabler. L’album, che rimanda a nomi quali Depeche Mode, Clan Of Xymox e che si muove, fra le altre cose, anche tra italodisco e shoegaze, è di fatto un concept legato all’idea di assenza, intriso di «sguardi di persone che non ci sono più e momenti lontani nel tempo… ma anche luoghi come le discoteche abbandonate, che abbiamo visitato scoprendole poco più che ruderi. Un mondo lontano anni luce, di cui viviamo in termini di riflessi e ricordi», come precisa Babini.
Una prova che in brani come Delacroix rimanda a un ibrido fra il Ray Stephens di Cat’s Eye e i già citati Depeche Mode: quelli che hanno dato forma a Black Celebration perché hanno saputo ascoltare il lato più oscuro e nascosto di ciò che si lega al ricordo e lo processa senza scadere nel melenso. Un’operazione che si cimenta anche con il cantato in italiano in 2 episodi: la cover di Summer On A Solitary Beach di Franco Battiato e la suggestiva Strasbourg 1518 che narra della strana e inquietante “piaga del ballo” che inspiegabilmente costrinse, senza un’apparente ragione, oltre 400 persone della cittadina francese a ballare senza potersi fermare per giorni e giorni, portandone diverse alla morte. E ancora, echi di Stephin Merritt, dei Kraftwerk di Computerworld e dei Soft Cell: l’elemento upper piano che spesso si trova ad amalgamarsi con ritmi mediorientali, da cui emerge uno smisurato amore per il Marc Almond solista del quale, chiarisce ancora una volta il cantante, «tutti conoscono i brani più famosi senza però prendersi spesso la briga di scandagliare la sua discografia post Soft Cell, che ha regalato perle incredibili».
Petra Von Kant: l’eclettismo in un viaggio alla ricerca dell’armonia
Petra Von Kant
Di altro respiro invece il progetto Petra Von Kant, che nelle sue 8 tracce sposa alla componente wave un passionale gusto per la psichedelìa cui si aggiungono, secondo un approccio libero e privo di costrizioni legate al genere, riferimenti che fanno del disco una fonte caleidoscopica di suggestioni perfettamente armonizzate fra loro. Composto da Fabio Babini (voce) e Danilo Marinelli (chitarra e sax, nonché presenza fissa nei live targati Venus In Disgrace), il duo ammicca nel nome che lo definisce all’immaginario di Reiner Werner Fassbinder (Le lacrime amare di Petra Von Kant) per approdare musicalmente a sentieri che li legano, di brano in brano, a formule che vedono avvicendarsi echi di artisti e discografie percepiti in genere come lontani ma capaci di rivelarsi più vicini di quanto si possa pensare.
È il caso, ad esempio, di Bloody Fountain che carica di chitarre floydiane il Nick Cave di From Here To Eternity, con un orecchio teso anche ai Calexico; mentre in Living In Mercy Street emergono lacci a band come U2 (dei tempi di Joshua Tree), Echo & The Bunnymen e Simple Minds. 2 tracce che nel loro farsi crogiuolo e punto d’incontro rendono perfettamente lo spirito di un album che non disdegna incursioni nell’ethno e nel neoprog, come nel caso di Misia (in origine, possibile nome della band) che nel suo incedere inesorabile riesce a rievocare tanto i Goblin quanto il Barry De Vorzon de I guerrieri della notte.
Un lavoro dall’immaginario testuale ricco di citazioni («Titoli di brani anche molto lontani da ciò che facciamo», precisa Babini, «che mi piace inserire a volte solo per la loro musicalità») e che a più riprese ci parla di alienazione, solitudine ma anche di grazia, tanta, che non necessariamente ha bisogno di parole per dare sostanza alla voce. Si erge, in questo senso come emblema, l’ipnotico finale del disco tratteggiato da The Sky Is Walking Out Of My Mind, che risplende di pienezza e malinconìa nel cantato di Paola Barba.