È una frase, “Turn and face the strange“, tratta da Changes di David Bowie. “Girati e affronta la stranezza“. In effetti, nel campo della moda la stranezza (non l’eccesso) è sempre stato un must che può anche essere visto come un affrontare la novità. E chi meglio del Pirata Spaziale, del Duca Bianco, Halloween Jack, Diamond Dog, Ziggy Stardust può rappresentare questo senso di nuovo, di continuo mutamento, rinnovamento, adattamento che la moda nel corso degli anni ha avuto? Dai suoi spettacoli sempre molto teatrali (grazie anche alla scuola mimica di Lindsay Kemp), ai suoi abiti disegnati da Kensai Yamamoto per i concerti del 1973 quando prese vita il personaggio di Ziggy, fino alle giacche di Alexander McQueen per i concerti degli anni ’99/’00, è innegabile come David Bowie abbia influenzato il mondo della moda e dell’arte, come possiamo vedere anche dalle sfilate dei primi Anni 2000 di Gucci (designer Frida Giannini 2006, e in seguito nel 2009), o dalle sfilate del 2007 Giorgio Armani, 2010 Givenchy, 2011 Balmain, 2012 Miu Miu, 2013 Jean Paul Gaultier, 2015 Dior.
Modelle con capelli pel di carota, abiti aderenti con stampe glitterate che ricordano la famigerata tutina in maglia di Ziggy, fulmini decorativi su giacche color cachi, silhouettes sottili in bianco e nero a riecheggiare The Thin White Duke, scarpe ricoperte di stelle rosse. Ogni minimo dettaglio è stato costruito meticolosamente per uno scopo: e non è solo quello di rappresentare l’ispirazione del cantante che li ha influenzati in quella particolare occasione ma anche per stupire, colpire al primo colpo, attirare l’attenzione di un mercato che a ogni sua caduta di stile è riuscito a risollevarsi grazie ad audaci mosse da parte di stilisti eccellenti. E come non citare le sfilate commemorative esplicitamente ispirate a Bowie del 2016 di Maison Margela, Raimi, John Galliano, Tom Hilfinger, Diane von Furstenberg, Dolce & Gabbana, Raf Simons, Hedi Slimane… Sono solo alcuni dei tanti stilisti che hanno preso liberamente ispirazione dalle performances e da quel grande genio che era Bowie; che l’hanno fatto rivivere nei loro abiti anche solo per un momento, per una sfilata.
Recentemente qualcun’altro ha trovato un ulteriore modo per ridare vita al Duca Bianco scrivendo un libro: una raccolta di interviste, recensioni e aneddoti raccolti nel corso della sua carriera di giornalista dello spettacolo. For Ever and Ever – I miei 15 anni di David Bowie, di Stefano Bianchi, edito da gmebooks, racconta di quel periodo, dal 1987 al 2002, in cui nella gran parte d’Italia non si ascoltavano più così tanto i suoi dischi: il periodo dei Tin Machine, di album sperimentali come 1.Outside, dei canti angelici e particolarmente sentiti di “hours…”. Un periodo che a mio parare ha riportato alla vita il vero genio di Bowie, partendo appunto dall’esperimento (ben riuscito) della sua partecipazione come membro e non frontman di una band che affrontava musiche decisamente più rock & heavy; passando al disco più controverso ed eccezionale, lo storytelling di 1.Outside dove prendono vita personaggi come il detective Nathan Adler, con quella musica che si distacca ancora di più dal glam e affronta terrori e angosce reali con suoni ruvidi, gracchianti. Fino ad arrivare all’ultimo racconto su Blackstar.
Stefano Bianchi, redattore per la testata Tutto Musica & Spettacolo dal 1984 al 1997, critico musicale per Buscadero, Ciak, Donna Moderna, Max, Gulliver e tanti altri periodici, attuale vice presidente dell’Associazione Culturale Ponti x l’Arte no profit nonché curatore di mostre d’arte contemporanea, regala a noi fan bellissime parole e racconti per leggere anche la parte più umana e meno da showman dell’artista londinese, con aneddoti che ti fanno sorridere e dichiarazioni che non erano state mai pubblicate di quell’uomo speciale, unico nel suo genere, che riusciva sempre a reinventarsi sorprendendo in continuazione; uno sperimentatore della musica ma anche della vita. È un bellissimo viaggio, For Ever and Ever, negli album meno famosi in Italia, arricchito da opere pittoriche e fotografiche di artisti che hanno dato la loro personale interpretazione della figura bowiana: la copertina di Franco Mariani, i quadri di Andy Fluon (Bluvertigo), un dolcissimo ritratto a matita e carboncino di Denise Esposito…
Personalmente è stato davvero difficile arrivare alla fine dell’ultimo capitolo: poche pagine in cui Bianchi racconta gli ultimi istanti prima di ricevere la notizia della morte di David; e in quello stesso modo ho rivissuto quella maledetta mattina del gennaio di 3 anni fa, quando svegliandomi ho letto una mail di un mio amico francese alla quale all’inizio non ho dato peso credendola la solita bufala, la fake news, ma che ho realizzato con orrore essere vera quando il mio cellulare ha cominciato a suonare: era il mio compagno e rispondendo gli ho detto è vero, quindi… E quando ho ricevuto la conferma ho iniziato a piangere sentendo un vuoto terribile dentro di me. Ci ho messo 2 anni ad ascoltare l’ultimo saluto di Bowie ai suoi fan, Blackstar: ultimo elogio a se stesso e allo stesso tempo un addio sentito e un ringraziamento a tutti coloro che lo hanno sempre seguito. Solo quest’anno sono riuscita a realizzare che lui non è davvero morto, lui continuerà per sempre a vivere non solo grazie alla sua musica ma anche a persone come Stefano Bianchi; grazie agli artisti che continueranno a trarre ispirazione da lui, grazie ai suoi riferimenti nella moda e grazie a tutti noi, che non potremo mai cancellare dalle nostre menti e dalle nostre anime il suo ricordo e le sue lezioni.
Foto: Omaggio a Ziggy Stardust nella collezione Primavera/Estate 2013 di Jean-Paul Gaultier
Kate Moss come David Bowie per Vogue, © Mert & Marcus
Gucci per Bowie, 2006