È arrivato nei negozi con tempismo perfetto questo Live At Wembley degli “Who con orchestra”, disponibile come triplo vinile o doppio Cd più Blu-ray audio con missaggi ad alta risoluzione PCM Stereo, DTS HD 5.1 e Dolby Atmos. È arrivato, cioè, pochi mesi prima dell’unica esibizione italiana della band inglese nell’ambito del tour orchestrale 2023, prevista a Firenze il 17 giugno a fianco dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino secondo una formula che ricalca quella documentata in questa pubblicazione, testimonianza di uno show tenuto a Londra il 6 luglio 2019.

Niente di nuovo, di inaudito o di rivoluzionario, perché le frequentazioni fra musicisti rock e orchestre sinfoniche sono storia vecchia che si aggiorna con regolarità; e sia Roger Daltrey, sia Pete Townshend, le hanno sperimentate più volte in passato rielaborando anche il materiale storico del gruppo. Daltrey soprattutto, che come spiega Townshend fra un brano e l’altro è stato l’istigatore del tour Movin’On che quest’estate girerà per l’Europa e il Regno Unito consentendogli di realizzare un vecchio sogno. Il vocalist è infatti romanticamente convinto che la musica digitale non abbia futuro: che nessun sintetizzatore possa sostituire la potenza, la dinamica e l’impatto anche fisico di una vera orchestra di archi, fiati, ance, ottoni e percussioni; e che un grande ensemble sia lo strumento perfetto per tradurre in suoni la complessità delle partiture del suo partner musicale, un musicista «che scrive e ha sempre scritto in forma classica», con accordi «che non sono accordi maggiori normali ma sono sempre diminuiti, sempre diversi da quel che ti aspetti e capaci di produrre una specie di bordone», un’onda ampia e ipnotica da riempire di note, contrappunti, sfumature.

Pete, che tra le sue influenze cita autori quali Henry Purcell e William Walton, concorda: parla di «musica classica degli Who» e a proposito di questo tour sostiene che «è giusto assumersi dei rischi, visto che non abbiamo niente da perdere». Hanno ragione? Funziona? Sì, per i motivi che loro stessi hanno spiegato: anche se i capitoli importanti della loro storia gli Who li hanno scritti tanto tempo fa e Townshend, certe idee, le aveva già concretizzate in gioventù con la sua personale orchestra casalinga di synth VCS3 e il suo approccio inventivo all’elettronica. Funziona perché il direttore d’orchestra Keith Levenson, che con Daltrey vanta già numerose collaborazioni, conosce bene il materiale e guida il suo collettivo di una cinquantina di elementi assicurandosi di non essere intrusivo, di non sovrastare ma di cercare un vero amalgama con la strumentazione della band.

Esordisce quasi timidamente nell’iniziale e imprescindibile Who Are You, ma prende subito confidenza durante l’esecuzione di Eminence Front, unico souvenir dai vituperati anni 80 ma canzone amatissima da Townshend e dai fan hardcore della band, per il piglio energico della melodia e del ritmo ma anche per la spietata onestà di un testo autobiografico che ricorda i tempi in cui le rock star sniffavano troppa polvere bianca perdendo spesso la rotta.

Ci sta perfettamente, in una scaletta confezionata ancora una volta come un “greatest hits”, ma aggiornata da 2 pezzi nuovi per la prima volta proposti dal vivo con 5 mesi esatti d’anticipo sulla pubblicazione nell’album Who: dal vivo, Hero Ground Zero (scritta da Townshend per Age Of Anxiety, una rock opera mai pubblicata) e, più avanti, il blues moderno e “politico” di Ball And Chain (che parla del campo di detenzione americano di Guantanamo Bay, a Cuba) funzionano molto meglio che in quel disco un po’ snervato e dal sound troppo ingessato e conformista, anche se nessuna delle 2 regge il confronto con i classici: a cominciare da una Pinball Wizard più orchestrale che rock (unica sopravvissuta – chissà perché — tra i 6 pezzi di Tommy che aprirono lo show londinese); dalla celebrativa Join Together introdotta da una jew’s harp e da un’armonica; e dalla commovente Imagine A Man, benvenuto ripescaggio di un pezzo “minore” (solo in termini di popolarità) da quel disco bellissimo e sempre sottovalutato che fu The Who By Numbers (1975), qui introdotta da un violino e interpretata con pathos da Daltrey.

Poi Levenson e i suoi orchestrali si prendono una pausa e spetta soltanto agli Who, come dice Townshend, «provare a fare del nostro meglio come da antica tradizione e cercare di portare a casa il risultato». Accanto ai 2 membri storici ci sono altrettante colonne portanti quali il figlio di Ringo Starr, Zak Starkey, alla batteria; e il fratello di Pete, Simon, ai cori e alla seconda chitarra, più Loren Gold alle tastiere e ai cori, Jon Button al basso, Billy Nicholls ai cori, Katie Jacoby al violino e Audrey Q Snyder al violoncello.

È il momento di Substitute e di The Seeker, fulminanti singoli anni 60 e 70 che non hanno perso sprint e vivacità; e poi di una Won’t Get Fooled Again eseguita in duo da Pete e Roger così come venne concepita: 1 provino per voce e chitarra acustica. Bella idea, che Townshend introduce spiegando il senso di una delle canzoni simbolo della band, ribadendo di non avere mai cambiato dai tempi di Woodstock il suo giudizio negativo sulla cultura hippie e precisando il suo pensiero sui rapporti tra musica e attivismo politico: «Siete voi a doverlo fare, noi vi forniamo la colonna sonora».

In chiave acustica è proposto anche Behind Blue Eyes, l’altro capolavoro di Who’s Next. Anche qui, il dinamico duo sopperisce ai cali di potenza e di testosterone cavandosela con mestiere prima di un 2° set in cui arrivano in sequenza ben 7 pezzi da Quadrophenia, che degli Who è del resto sempre stato il disco “orchestrale ” per eccellenza. Da The Real Me a Love Reign O’er Me, il progetto di rock sinfonico sembra prendere forma nel modo migliore, mentre la voce di Townshend e la sua chitarra acustica pilotano con sicurezza I’m One e Drowned; la sei corde elettrica di Pete si ricava 1 assolo in una 5:15 agile e pulsante nel basso di Button anche se meno devastante dell’originale; The Punk And The Godfather conserva una bella ed energica incazzatura e lo strumentale The Rock resta adeguatamente maestoso.

Roger Daltrey e Pete Townshend

La sacra e immancabile Baba O’Riley aperta dal celebre loop campionato di VCS3 e chiusa dalla fuga violinistica dell’ottima Jacoby, suggella secondo copione una messa cantata in cui non c’è posto per My Generation ma in cui si inserisce una coda inattesa e toccante: Pete e Roger, i 2 sopravvissuti, se la giocano di nuovo da soli in Tea & Theatre, una bella canzone semi dimenticata e recuperata dall’album Endless Wire di 17 anni fa. È un invito al dialogo davanti a una tazza di ; una lettera aperta di Townshend all’amico/nemico di una vita in cui riaffiorano alla memoria successi e tragedie, pesa l’assenza di Keith Moon e di John Entwistle e incombe l’avanzare della vecchiaia, “noi tutti tristi/noi tutti liberi/prima di abbandonare il palco”. Il senso della sopravvivenza di un brand dimezzato e di un’operazione come Live At Wembley sta forse lì, in quelle parole malinconiche, affettuose e disincantate ma anche piene di orgoglio.

Business e soldi, lo hanno ammesso candidamente anche loro, giocano un ruolo non trascurabile nelle loro periodiche reunion ma Townshend, 77 anni, e Daltrey, 79, sembrano credere ancora nel potere rigenerativo del rock e nella necessità di vivere in moto perpetuo (Movin’ On, appunto), ben sapendo che le loro canzoni, i loro riff e i loro power chords – la loro “musica classica” del secondo 900 – nel perpetuarsi delle esecuzioni dal vivo e nelle metamorfosi degli arrangiamenti possono trovare un’altra strada per l’eternità.