I 50 anni di The Who Sell Out sono passati da un bel po’, e non è la prima volta che una casa discografica rincorre date importanti celebrandole in ritardo. Fatto sta che, perso quel treno nel 2017, Universal rimedia oggi distribuendo nei negozi 1 cofanetto super deluxe contenente 5 Cd e 2 vinili 7 pollici per un totale di 112 tracce (di cui 46 inedite) riproponendo versioni mono e stereo dell’album con il classico profluvio di lati A e B di singoli, outtakes e alternate takes, provini originali registrati a casa da Pete Townshend e brani che, incisi nel 1968, apriranno la strada al successivo Tommy, spiegati e annotati dallo stesso chitarrista in 1 libro rilegato di 80 pagine corredato da riproduzioni di volantini, poster, programmi di concerti e altre memorabilia assortite. Sono disponibili, inoltre, le versioni in doppio Cd e Lp.

Succulento materiale per storici, collezionisti e completisti che fa da contorno al 1° capolavoro degli Who, 1 disco che riascoltato oggi sprizza ancora energia, freschezza, vivacità e fantasia incontenibili. Usciva il 15 dicembre 1967, nell’anno di Sgt. Pepper’s, in piena Summer of Love e nel vortice della rivoluzione psichedelica, eppure – come in molti hanno giustamente annotato – suonava piuttosto come un’ode a un’epoca antecedente e già in declino.

The Who al Monterey Pop Festival, 1967
© Guy Webster

Anche se solo pochi mesi prima, nel mezzo di una serie di session di registrazione tenute in 4 diversi studi londinesi, ai Talentmasters di New York e ai Gold Star di Los Angeles (il covo preferito di Phil Spector), i 4 inglesi avevano fatto letteralmente esplodere il palco del Monterey Pop Festival, Townshend non si è mai riconosciuto nella cultura hippie, tanto da esprimere a più riprese il suo disprezzo nei confronti dei “3 giorni di pace, amore e musica” di Woodstock, dove fu protagonista di un leggendario e violento scontro con l’attivista politico americano Abbie Hoffman. E Sell Out, infatti, guardava più indietro: a una “storia d’amore tra i giovani britannici e le loro radioline a transistor” (come ha scritto il critico Dave Marsh) che a metà anni 60 captavano il segnale FM delle antenne pirata pronte a diffondere il nuovo verbo rock a 45 giri al minuto senza i limiti, le censure e le restrizioni sindacali dell’ingessata BBC.

Era un’ode un po’ romantica e un po’ satirica a un’epoca ribalda e tumultuosa in cui i teen ager diventavano per la prima volta consumatori da bersagliare con merci concepite per loro; figli ribelli e degeneri di una generazione vissuta di stenti fra guerra e tessere annonarie; attori e spettatori dell’effimero sogno in technicolor della Swinging London decisi a farsi sentire e a giocare un ruolo decisivo nella società. È quello lo scenario in cui nasce il disco che Townshend considera il 1° “vero” album degli Who dopo le prove generali dei 2 Lp precedenti; il loro definitivo manifestopop” prima di alzare di molto ambizioni e volume dei distorsori alla ricerca del “maximum r&b” e di verità filosofiche impregnate dagli insegnamenti del Meher Baba.

Un album concept che concept non è: piuttosto una meravigliosa finzione, una pimpante sequenza di canzoni intervallata da stacchetti pubblicitari come si trattasse di un immaginario programma di Radio London, in base a una felice idea suggerita da uno dei manager e discografici della band, il pratico e spiccio Chris Stamp, mentre l’altro – il còlto, intellettuale e tormentato Kit Lambert – si sistema dietro alla console. Con coraggio e spregiudicatezza (Stamp arriva a chiedere alle aziende del denaro per gli “spot pubblicitari” inseriti nel disco), tra i solchi del vinile e nelle foto di una meravigliosa copertina in stile Pop Art scattate da David Montgomery, la band prende in giro la deriva consumistica della società reclamizzando prodotti fittizi ma anche reali, accumulando ritardi sulla data di pubblicazione prevista per questioni di diritti e rischiando querele che riuscirà a evitare per il rotto della cuffia (gli spot veri e falsi per Coca-Cola, per Jaguar, per le batterie Premier o per la Rotosound produttrice di corde per chitarra, inclusi nelle bonus tracks del box, non arriveranno alla sequenza finale).

Pete Townshend, Keith Moon, Roger Daltrey, John Entwistle

Pete Townshend magnifica le virtù di un enorme stick di deodorante, Roger Daltrey si fa ritrarre immerso in una vasca di fagioli in scatola (Townshend: «Speravamo di procurarci delle Jaguar gratis. Ci arrivarono invece 50 lattine di fagioli»), Keith Moon si spalma sul viso il contenuto di un gigantesco tubetto di crema anti acne, John Entwistle in pelle di leopardo stile Tarzan e biondona a fianco mostra felice i risultati di un ipotetico corso di body building. È humour acidulo e squisitamente britannico che incornicia canzoni in cui i power chords del chitarrista si mescolano a delicate sonorità acustiche, mentre Daltrey sfoggia una flessibilità vocale fino a quel momento non così evidente rivelandosi a suo agio anche quando Townshend gli cuce addosso ruoli antitetici alla sua immagine di bullo di quartiere, muscoloso e rissoso.

Anche gli altri sono al top della forma: l’impareggiabile Moon allarga le sue braccia da Dea Kalì su tom, rullanti e grancassa inondando le alte frequenze con i suoi piatti onnipresenti mentre con il suo basso elastico e potentissimo Entwistle deflagra, detta linee melodiche e s’inventa spazi solisti, arrangiando con sapienza calibrati interventi di ottoni, divertendosi con i jingle più grotteschi e sfoggiando con proverbiale aplomb il suo cinismo in un pezzo ingiustamente sottovalutato come Silas Stingy.

L’aria lisergica che si respira allora, non può lasciare indifferente il quartetto londinese: e non potrebbero arrivare da un’epoca diversa il phasing e la melodia “storta”, svagata di Armenia City In The Sky (scritta e co-interpretata da John “Speedy” Keen, amico del gruppo e poi leader dei Thunderclap Newman di Something In The Air) o le distorsioni e gli effetti di I Can See For Miles, il gioiello più prezioso della collezione che Pete definirà «il brano più rumoroso, crudo e sporco inciso dagli Who fino a questo momento», spingendo involontariamente Paul McCartney a concepire Helter Skelter. Solo che fra quegli ubriacanti vortici sonori e nell’arioso ritornello non si celebrano l’espansione della coscienza e i valori del peace & love; si cantano invece le paranoie e le gelosie del chitarrista autore del pezzo, ossessionato dal timore che la compagna e futura moglie Karen Astley possa tradirlo mentre si trova in tour; e persino minaccioso quando la avverte di avere la vista lunga e occhi dappertutto.

Unico singolo da Top Ten degli Who negli Usa, con grande disappunto di Pete non otterrà riscontri paragonabili in patria dove lascerà poche tracce anche il lato B Mary Anne With The Shaky Hand, cantilena elettroacustica con percussioni latineggianti, intrecci vocali che evocano gli Everly Brothers e Simon & Garfunkel; e un testo molto – ma molto – ambiguo, che potrebbe riferirsi a una ragazza con un tremore congenito alle mani o disponibile a favori sessuali (la seconda canzone degli Who sulla masturbazione, dopo Pictures Of Lily?). Le armonie vocali sono un fil rouge del disco, e i Beach Boys di Pet Sounds probabilmente un punto di riferimento importante in composizioni come Relax, composito pastiche dagli aromi vagamente psichedelici cantato a 2 voci da Daltrey e Townshend.

Quest’ultimo sfodera un quasi inedito lato malinconico e sentimentale in cui indulgerà più spesso in età matura quando con quella sua voce fragile, acuta ed emotiva si ritaglia un ruolo da cantante solista in Odorono, in Our Love Was, in I Can’t Reach You e in Sunrise, dove si esibisce da solo alla 12 corde acustica ispirandosi esplicitamente allo stile del chitarrista jazz americano Mickey Baker. Ma soprattutto si conferma uno straordinario ritrattista e un attento osservatore, mordace ma compassionevole, della sua generazione, capace di sondare e di dipingere con poche pennellate le ansie, le frustrazioni e il senso di inadeguatezza dei kids che scruta negli occhi dai palchi dei concerti: in Tattoo, delizioso quadretto a 3 voci, il protagonista è un (molto contemporaneo) ragazzo che nei tatuaggi scorge lo strumento per diventare uomo e ribadire la propria appartenenza al branco.

Sono temi cari a Townshend e che anticipano di anni quelli di Quadrophenia, mentre Tommy comincia a prendere forma nei movimenti di Rael (1 and 2), mini opera sulla scia di A Quick One While He’s Away che in 5 minuti e 44 secondi condensa fino a renderlo incomprensibile un intricato concept in cui, parlando di guerre e di rivoluzioni, si evoca l’incubo collettivo e mai sopito della “minaccia cinese”. Con l’organo di Al Kooper a dare manforte come in Relax, affiorano lì alcuni temi strumentali (Underture, Sparks) poi ripresi e sviluppati nella rock opera sul ragazzo sordo, muto e cieco, fili di una tela di Penelope che Townshend ha fatto e disfatto nell’arco di una carriera dedita a un incessante e inquieto work in progress.

Anche in questo, The Who Sell Out è un pilastro fondamentale nella storia del quartetto. Un’opera di transizione, certo, ma anche molto di più: una fotografia a colori vivaci di una fase effimera ma cruciale della English way of life, un resoconto spumeggiante, divertente e agrodolce. Un “qui e ora” senza i benefici della maturità e della prospettiva storica, ma con tutta l’eccitazione concitata e la travolgente vitalità della cronaca e della vita vissuta in tempo reale.