Palme, sole, oceano. Auto decappottabili, surf e California Girls, certo. Sembrava tutto come prima. Ma la Los Angeles dei primi anni 70 non era più quella dei Sixties. Aveva vissuto l’alba e il tramonto del sogno hippie; i grandi raduni rock e l’orrore degli omicidi di Charles Manson; le groupie e il femminismo; gli eccessi e la decadenza; la stagione dell’innocenza e quella dell’amaro risveglio. Intanto era cambiata anche l’industria discografica, e in tutta l’America le radio in modulazione di frequenza scavalcavano le vecchie e ingessate emittenti AM trasmettendo album interi invece dei successi Top 40.
Come stupirsi che i Beach Boys si sentissero spiazzati, sorpassati a sinistra e fuori luogo? Che fossero finiti fuori moda, mentre anche i vecchi fan si liberavano con imbarazzo dei loro dischi diventati così poco cool? Sgomenti e disorientati, i “ragazzi da spiaggia” seppero comunque reagire con dignità e produrre ancora grande musica, come ci rammentano il box set in 5 Cd Feel Flows: The Sunflower & Surf’s Up Sessions 1969–1971 e il suo “bignamino” su 2 Cd o 4 Lp focalizzati su quel loro rito di passaggio in un momento critico di trasformazione.
Lo fanno nel modo ormai consueto: con abbondanza di inediti e di rarità; di outtakes e di registrazioni dal vivo; con versioni a cappella e missaggi differenti dei brani; alternate versions e backing tracks che corredano i 2 album del periodo, Sunflower e Surf’s Up. Un flop doloroso e un insperato successo, i loro Abbey Road e Let It Be secondo il paragone un po’ ardito tracciato da Rob Sheffield sulla rivista Rolling Stone. 2 album avventurosi, complessi, sofisticati nei suoni, negli arrangiamenti e nelle vorticose armonie vocali, che la rimasterizzazione di Mark Linett e Alan Boyd (lo stesso team che una decina d’anni fa aveva approntato il cofanetto SMiLE Sessions) restituisce con brillantezza e in ogni sfumatura.
The Beach Boys: Carl Wilson, Bruce Johnston, Mike Love, Brian Wilson, Al Jardine, Dennis Wilson
© Iconic Artists Group LLC/Brother Records Inc.
Erano gli anni in cui Brian Wilson, sempre più ipocondriaco e perennemente rintanato nel suo home studio sotterraneo a Bel Air, cedeva gradualmente lo scettro del comando aprendo la porta a una gestione più democratica del gruppo: tutti, dal fratello Carl al cugino Mike Love, da Al Jardine a Bruce Johnston, scrivevano e interpretavano il ruolo di cantanti solisti; ma era soprattutto Dennis – il Wilson di mezzo, il più estroverso, il playboy, la pecora nera che amava l’alcol e le scazzottate, il baseball e le auto sportive, il surfer atletico con la faccia da attore (a fianco di James Taylor, Warren Oates e Laurie Bird in Two-Lane Blacktop/Strada a doppia corsia) e dalle frequentazioni pericolose (la Manson Family, appunto) – a rifiorire ed esplodere come autore, accumulando materiale per dischi solisti sempre procrastinati e in parte filtrato nel repertorio della band.
Ben 4 sono le composizioni a sua firma in Sunflower, debutto sulla loro etichetta, Brother, in joint venture con la Reprise dopo il traumatico divorzio dalla Capitol. E sono tra quelle che più lasciano il segno: Slip On Through, che apre l’Lp, vi innesta sonorità inusitate, distorte, “moderne” e quasi funk, mettendo in risalto (come tutto l’album) le linee di basso, il deep end, gamma più profonda dello spettro sonoro; Got To Know The Woman dimostra il suo amore per l’r&b, ma è soprattutto Forever a rifulgere: una meravigliosa e malinconica ballata subito finita fra i classici e che anche Brian gli invidiava.
Lui, il fratello maggiore, si fa riconoscere nella solare melodia anni 50 di This Whole World (Carl voce solista), fra i riverberi di All I Wanna Do e in Our Sweet Love, da lui configurata appositamente per la melodiosa voce di Carl rimettendo mano a una outtake di Friends. Le svenevolezze di Deirdre hanno una impronta classica, ma più spesso questi sono Beach Boys diversi, in cerca di nuove strade tra il sunshine pop di Add Some Music To Your Day; il sound Motown corretto latin rock di It’s About Time; gli archi, i fiati e la fisarmonica della melodrammatica Tears In The Morning; l’atmosfera fiabesca e infantile di At My Window e gli oltre 5 minuti acquatici e sperimentali di Cool, Cool Water, rifacimento di un brano composto per il fantomatico SMiLE in cui le voci giocano a rimpiattino.
La reazione indifferente del pubblico a Sunflower è un brutto rospo da mandar giù, eppure i Beach Boys dell’anno successivo (complici le tattiche del nuovo manager – e coautore – Jack Rieley, che li riposiziona abilmente sul mercato) sono ancora più coraggiosi e diversi da prima, capaci di risintonizzarsi con lo spirito del tempo. Suonano con i Grateful Dead al Fillmore East di New York e a un concerto di protesta contro la guerra in Vietnam a Washington, D.C.; cavalcano l’onda dei movimenti ecologisti (Don’t Go Near The Water e A Day In The Life Of A Tree, introdotta da un organo maestoso); riscrivono Riot In Cell Block Number 9 di Lieber & Stoller commentando rivolte studentesche e scontri con la polizia in Student Demonstration Time (il testo è di Mike Love) con distorte chitarre fuzz e una classica scansione rock blues, anche se il Neil Young di Ohio e i Jefferson Airplane di Volunteers restano oggettivamente lontani, testimoni più lucidi e appassionati di quanto sta accadendo.
Come molti hanno fatto notare, Surf’s Up è un disco più etereo, più scuro e più malinconico del suo predecessore, ma anche più riuscito e organico. Perché accanto a un singolo robusto, gioioso e contagioso (per quanto non molto fortunato) come Long Promised Land in cui Carl Wilson fa quasi tutto da solo; a uno svagato inno al benessere fisico come Take A Load Off Your Feet; alle nostalgie di una Hollywood scomparsa che Johnston canta nella celebre Disney Girls (1957) e al folk blues di Lookin’ At Tomorrow (A Welfare Song) convivono 3 capolavori inarrivabili, tutti concentrati nella seconda facciata. Feel Flows intitola la ristampa ed è un gioco di prestigio produttivo, un incastro magico di voci, flauti, chitarre distorte, sax, piano, organo e Moog sovrapposti e sfasati da un oscillatore a velocità variabile che produce dissonanze e un effetto turbinoso.
‘Til I Die è il momento forse più struggente dell’intera produzione, lo specchio di un Brian Wilson alla deriva che in quei giorni chiede al suo giardiniere di scavargli una fossa e minaccia di lanciarsi con la sua auto dal molo di Santa Monica, un quadretto di solitudine e depressione scritto in una notte trascorsa sulla spiaggia a fissare un oceano che non è più lo scenario di spensierate cavalcate sulle onde con la tavola da surf ma un elemento trascendente e senza confini che sembra attrarti verso le sue profondità abissali (succederà davvero, quando Dennis, nel 1983, affogherà ubriaco nelle acque di Marina del Rey).
E poi c’è Surf’s Up, un gioiello perduto nelle spire di SMiLE e finalmente recuperato: cosmica e spirituale, con musica di Brian e un testo barocco di Van Dyke Parks che coglie il doloroso passaggio dalla spensieratezza all’età adulta, ma anche un momento di illuminazione e risveglio spirituale conseguito grazie alla musica. Il maquillage di studio è geniale: sulla traccia base incisa nel 1966 si innestano il demo voce e piano di Wilson sr. e la voce di Carl registrata ex novo, mentre in coda la composizione articolata in 2 movimenti utilizza un altro frammento recuperato del Sacro Graal dei Beach Boys: Child Is Father Of The Man.
Brian Wilson
Sorprendentemente, è quasi altrettanto riuscita nella versione dal vivo inclusa tra le “bonus” e che Love introduce ricordando le parole di ammirato elogio spese da Leonard Bernstein quando ne ascoltò l’esecuzione solista di Brian nel suo programma televisivo. È una highlight di Feel Flows insieme all’inedita Big Sur, una serafica ode che proprio Love dedica all’incantevole regione californiana dalle “colline di cashmere zeppe di sempreverdi”, in cui i tramonti sono color cremisi e le albe dorate, e dove “l’aspra montagna incontra l’acqua”.
Punte di un cumulo di registrazioni all’epoca rimaste fuori dai 2 Lp: 4h Of July proietta i Beach Boys dalle spiagge californiane alla giungla infernale del Vietnam, mentre il ritmo del vecchio rock and roll scuote Back Home e l’ironica Susie Cincinnati (un cavallo di battaglia di Jardine dal vivo); San Miguel (scritta da Dennis e cantata da Carl) prende lezioni da Phil Spector; All Of My Love/Ecology è un’altra (inedita) dimostrazione della crescita artistica del fratello di mezzo; I’m Goin’ Your Way sfodera inusitata, elettrica aggressività; Behold The Night danza elegante attorno a un clavicembalo; la cover di Cotton Fields di Leadbelly (un singolo flop negli Usa ma un successo nel Regno Unito e nel resto d’Europa) dimostra che l’esuberanza di un tempo non era andata perduta e la bizzarra My Solution sfoggia persino echi zappiani.
Dimostrazione lampante che dai Fab Six, in quei primi anni del decennio, la musica sgorgava libera e impetuosa, anche se la testa del leader si accendeva solo a intermittenza. Per lui, più che per chiunque altro, gli anni 60 erano finiti da un pezzo. Lo aveva cantato in tempi non sospetti, di non “essere fatto per questi tempi”: a maggior ragione per un decennio travagliato, violento e complicato come i ’70, anche se il momento della (momentanea) resa – per lui e per gli altri Beach Boys – non era ancora arrivato.