Cosa aspettarsi a questo punto della carriera da un musicista come Steve Gunn, che cita fra le sue principali influenze Paṇḍit Prân Nath e la musica classica indiana; il minimalismo avant-garde di La Monte Young; i pionieri dell’American Primitive – il movimento chitarristico – John Fahey, Jack Rose, Robbie Basho e Sandy Bull; voci anticonformiste della stagione d’oro del folk britannico quali Bridget St. John e il recentemente scomparso Michael Chapman (con cui l’ex chitarrista dei Violators di Kurt Vile aveva avuto modo di collaborare nei suoi ultimi anni di vita)?
Forse non un album come Other You. O forse sì: un disco che lui, residente a Brooklyn, ha registrato stavolta dall’altra parte degli States nell’arco di 2 session tenute a Los Angeles con un team di nuovi collaboratori e in cui la sua musica diventa ancora più rarefatta, placida, impalpabile, sognante. Una combinazione di elementi allo stato liquido e gassoso, più che solido. Gunn è un grande chitarrista ma non è un axeman, men che meno uno showman. Anzi, lavora e sempre più di sottrazione riservando particolare attenzione al mood e alla timbrica, asciugando il fraseggio e tenendo quando necessario il suo strumento sullo sfondo. E scrive canzoni (in Other You spicca Sugar Kiss, unico strumentale di tono quasi ambient, dove le sue corde incrociano quelle sdrucciolevoli dell’arpa di Mary Lattimore) sempre più concise, cantate con una voce quasi anonima, spesso sussurrante e mai intrusiva, suonate in punta di dita e senza alcun immediato termine di paragone nella musica contemporanea (ma neanche in quella del passato).
Steve Gunn
Non ama le jamband, Steve (anche se ha riscoperto i Grateful Dead) ma è un improvvisatore di natura che predilige le trame ipnotiche della drone music e i frutti spontanei dell’interplay con gli altri musicisti. Persino quando resta, come in questo caso, entro i confini della popular song. Ce ne accorgiamo nel finale della title track, ritmo leggero e note sospese in aria; nelle aperture “spaziali” della tersa Other Way (dove, come enunciano le prime parole del testo, si gode di una “visibilità eccellente”); nelle spire lievemente psichedeliche della più sincopata Protection (1 dei titoli migliori: sarebbe piaciuta a Jerry Garcia?).
Nel reticolo sottile ma compatto di batterie, drum machine, bassi elettrici, contrabbassi, pianoforti, organi, arpe, clarinetti, synth, campionamenti e, ovviamente, chitarre acustiche ed elettriche (le suona anche il produttore del disco, Rob Schnapf: un pilastro dell’alternative rock che ha lavorato con Elliott Smith e con Beck, ma anche con Richard Thompson e con gli X), in compagnia di musicisti empatici, aperti di mente e senza frontiere con cui condivide una certa disposizione mentale (c’è anche la voce della veterana St. John, a proposito, nella onirica Morning River) Gunn dipinge con colori tenui un quadro impressionista, dipanando una musica in apparenza evanescente ma elastica in cui, come scrive il sito Pitchfork, “anche la sua chitarra solista sembra fondersi nei delicati arrangiamenti” abbandonando certe esaltanti fughe del recente passato: altrettanto ipnotico ma meno dinamico dei dischi solisti precedenti, Other You va assaporato con pazienza e ripetutamente, per sfuggire alla prima impressione di un sound un po’ troppo monocorde.
Nell’ascolto prolungato di Andrés Segovia, di Bola Sete e della chitarra flamenco, Steve dice di avere trovato la chiave per semplificare ulteriormente la sua espressione, felice di inoltrarsi in territori dai contorni più sfumati e di perdersi nella musica dimenticandosi durante l’esecuzione – come ha raccontato al sito Toneglow – «con quale accordatura stavo suonando, in quale tonalità, con quale capotasto». «C’è un sacco di spazio aperto in questo nuovo album», dice, orgoglioso di avere preso le distanze da certe consuetudini e dagli schemi più familiari, e non gli si può dare torto. Lo stesso spazio e anelito di libertà sembra ricercarlo anche nei testi, che lo ritraggono spesso in cammino senza meta per scaricare lo stress e acuire la capacità di osservazione sul mondo esterno e su quello interiore.
Tra brevi vampate di chitarre fuzz (Fulton) e vaghi sentori di bossa nova (The Painter), l’umore autunnale di Ever Feel That Way e la calda, avvolgente melodia pop di Reflections (dove la chitarra spicca il volo inarcandosi sulle note più acute), Gunn cerca una via alla totale libertà espressiva senza rinunciare al linguaggio immediato e universalmente comprensibile del pop e del rock.
Dopo che il bellissimo The Unseen In Between ha forse chiuso, nel 2019, un ciclo promettente e spesso esaltante, Other You ha il coraggio di cercare una strada differente. Un punto diverso di osservazione per leggere tra le righe dell’inconscio e dei misteri dell’universo, per esplorare la consonanza tra la musica che abbiamo dentro e quella che ci gira intorno: una volta ancora, “il non visto che sta nel mezzo”, verso un altro sé che sembra essere sempre più a portata di mano.