Quando suonavano insieme, lì in mezzo tra il loner canadese Neil Young, l’hippie californiano David Crosby e la pop star inglese Graham Nash, al texano Stephen Stills toccava il ruolo del playmaker, del regista, del tuttofare. Tosto, determinato, spigoloso, sanguigno, facile a scaldarsi (famoso il suo violento alterco con uno spettatore molesto immortalato nel 1969 in una sequenza del film Celebration At Big Sur, alla faccia del “peace and love”) ma anche lucido, duttile, eclettico, infaticabile timoniere e organizzatore di suoni.

Non a caso gli altri 3 lo battezzarono Captain Manyhands: il Capitano Tantemani che in Crosby, Stills & Nash e in Déjà Vu prendeva le redini di quel selvaggio mustang, uno strano animale le cui zampe sembravano spesso voler andare in direzioni diverse, autonominandosi produttore sul campo e suonando di tutto, chitarre, basso e tastiere. Non poteva durare a lungo, e non durò. Tanto che nel 1971, prima di una delle numerose reunion, anche lui si ritrovò a doversi inventare una carriera solista e decise di andare in giro a suonare sull’onda dei 2 album che aveva pubblicato nei mesi precedenti, Stephen Stills (ospiti Jimi Hendrix, Eric Clapton, Ringo Starr, Booker T. Jones, Rita Coolidge, Cass Elliott, John Sebastian, Crosby e Nash) e Stephen Stills 2 (di nuovo con un po’ di amici importanti a dare man forte).

Stephen Stills e il chitarrista Steve Fromholz (sullo sfondo) durante il tour del 1971
© Henry Diltz

Era uscito a giugno, quel 2° Lp meno fortunato e piuttosto tartassato dalla critica; e quello stesso mese Stephen si imbarcò in un tour passato alla storia per la presenza della sezione fiati dei Memphis Horns e per una serie di turbolenze e di disavventure (come ricorda oggi il mensile britannico Mojo: un operaio morto dopo essere precipitato da un’impalcatura al Madison Square Garden; un incidente motociclistico in cui Stills si ruppe i legamenti del ginocchio) oltre che per l’umore instabile del leader, dedito, come raccontò il chitarrista Steve Fromholz, a una poco salutare dieta a base di bourbon Jim Beam, cocaina e cheeseburger.

La preziosa testimonianza offerta oggi dall’inedito Live At Berkeley 1971, che Stills stesso ha assemblato recuperando dai suoi archivi le registrazioni delle 2 ultime date, 20 e 21 agosto al Community Theater della cittadina universitaria alle porte di San Francisco, ci permette di percepire le tensioni, la volatilità e l’eccitazione del momento: sono performance a volte imperfette ma travolgenti, in cui il musicista, allora 26enne, cavalca con il piglio di un cowboy da rodeo i generi più diversi. Il folk pensoso di For The Others, 2 voci e fingerpicking; e il Delta blues acustico di Black Queen, in cui la sua nervosa chitarra fa meraviglie; la canzone di protesta (Word Game è un inarrestabile fiume di parole snocciolato in apnea prendendo di mira le falsità dell’Amerika e del Sud Africa dell’apartheid); la ballata country in tinta gospel (Jesus Gave Love Away For Free in duetto con Fromholz) e l’r&b da autentica soul revue, quando la musica diventa elettrica e alla band si aggiungono i Memphis Horns, sudisti come lui e partner ideali nel momento in cui Stephen, sfruttando le tonalità più roche della sua voce, si immagina shouter di pelle nera.

È un quadro composito, e peccato che sia incompleto: il disco dura 67 minuti ma ci voleva un doppio per restituire una testimonianza fedele di quel che accadde quelle sere davanti ai 3.500 fortunati spettatori. Invece la scaletta di 14 pezzi è troppo sbilanciata verso la parte acustica dello show, lasciando alla full band le briciole della travolgente parte finale: con la Bluebird dei Buffalo Springfield completamente stravolta, una Lean On Me che non è quella di Bill Withers ed Ecology Song; tris di canzoni in cui la tromba di Wayne Jackson, il sax tenore di Andrew Love, l’alto di Sydney George e la chitarra sporca, aspra, distorta e tipicamente balbettante di Stills s’inseguono e si alternano al proscenio ancorati a terra dagli altri fiati di Roger Hopp e di Jack Hale Sr., dalla chitarra di Fromholz, dall’organo di Paul Harris, dalle percussioni afrocubane di Joe Lala e dalla fedele sezione ritmica di CSN&Y, Calvin FuzzSamuels al basso e Dallas Taylor alla batteria (il “fratello” con cui, spiega Stills nelle presentazioni finali della band, litiga spesso e volentieri ma che come nessun altro sa suonare in sintonia con lui, «così aderente e così vicino») mentre Cherokee, la dedica alla Coolidge che lo aveva da poco lasciato per Nash, diventa una fantastica cavalcata latin/fusion/psichedelica di quasi 10 minuti in un orgiastico intreccio di chitarre, organo, basso, percussioni, flauto e ottoni.

Vale il prezzo del disco insieme alle 2 apparizioni di David Crosby, che nella parte acustica ricrea magiche alchimìe duettando con Stills in una You Don’t Have To Cry più anfetaminica e decisa della versione inclusa in CSN e in The Lee Shore, una di quelle eteree e incantate odi marine di cui solo lui era capace e a cui Stephen aggiunge ricami chitarristici che li fanno ancora immaginare insieme a bordo del Mayan, la wooden ship di David. Sono i titoli più celebri in programma insieme alla hit Love The One You’re With, l’inno all’amore libero e allo scambio di partner che l’anno prima era finita in classifica e che qui viene proposta subito in apertura in una vivace versione per chitarra acustica e conga, a 49 Bye-Byes e a For What It’s Worth dei Buffalo Springfield, quasi irriconoscibili in un’arruffata medley che Stills esegue da solo pestando sui tasti del pianoforte e cantando come un predicatore evangelico invasato. Al piano aveva eseguito subito prima la bella ballata Sugar Babe mentre poco dopo, in Know You’ve Got To Run, sfoggia un’invidiabile tecnica anche al clawhammer banjo sfoggiando il suo versatile virtuosismo.

«L’intimità del Berkeley Community Theater sembrava servire da punto focale di collegamento tra il pubblico e l’energia che circondava il clima sociale del momento», ha ricordato Stills presentando l’album, sottolineando che tutti i concerti di quel tour furono «rumorosi, stridenti e senza freni». Umanamente allo sbando ma artisticamente ancora in stato di grazia, pur non avendo la penna di Young, la naturale sensibilità pop di Nash, la visione onirica e la complessità armonica mutuata dal jazz di Crosby, Stephen era un music man a 360° immerso fino al collo, 24 ore al giorno, nel sound contemporaneo e nella tradizione, nella mitologia dell’America e nel suo turbolento presente.