Nel luglio del 1970, mentre cavalca senza sella, Randy Craig Wolfe alias Randy California cade rovinosamente da cavallo infortunandosi gravemente. Saltano concerti importanti e già programmati – compresa una partecipazione al prestigioso Isle of Wight Festival – rallentano le session d’incisione del nuovo disco. È il punto di non ritorno per un gruppo allo sfascio e ormai diviso in fazioni contrapposte: il bassista Mark Andes e il cantante/percussionista Jay Ferguson sono sempre meno disposti ad accettare le bizze del chitarrista dalla zazzera afro cresciuto alla corte di Jimi Hendrix (è stato lui ad affibbiargli quel nomignolo), diventato sempre più bizzoso e imprevedibile man mano che aumenta il suo consumo di acidi e di cocaina.
Spirit: Randy California, Ed Cassidy, Mark Andes, John Locke e Jay Ferguson, Los Angeles, 1968
Quella che sembra la ricetta per un disastro diventa invece il detonatore di un’esplosione di creatività che darà origine al sofferto capolavoro degli Spirit, Twelve Dreams Of Dr. Sardonicus, 4° e ultimo disco del quintetto originale appena ristampato dalla Esoteric su doppio Cd con un’eccellente rimasterizzazione, un bel gruzzolo di bonus tracks e 1 ora e 20 minuti di registrazioni inedite dal vivo riprese (con una sola eccezione) dallo show del 16 maggio 1970 al Fillmore West di San Francisco. Nelle note di copertina l’archivista del gruppo Mick Skidmore lo definisce il loro Sgt. Pepper: ci sta, perché la musica che contiene è fantasiosa, multicolore e immaginifica grazie anche alla mano felice di David Briggs, il produttore che in quei tempi sta completando After The Gold Rush di Neil Young e che sostituisce il vecchio mentore Lou Adler inviso a Randy, a sua madre Bernice e al suo patrigno, il batterista Ed Cassidy.
Ha le idee chiare e l’aria da duro, Briggs: indossa occhiali scuri e un cappello nero, frequenta i biker e ha un motto cui si attiene rigorosamente (“Fai le cose per bene, altrimenti vai affanculo”). Gli Spirit non sono gente facile da trattare, ma sono musicalmente aperti e malleabili: sicuramente sono uno strano gruppo, “una famiglia che suona assieme” (così avevano intitolato il loro 2° album) nata a Los Angeles per iniziativa di 3 californiani (Randy e il tastierista John Locke vengono da downtown, Ferguson dalla vicina Burbank), 1 bassista originario di Filadelfia (Andes) e un chicagoano, Cassidy, percussionista jazz già allora 47enne che ha suonato con Gerry Mulligan, Cannonball Adderley e Thelonious Monk.
Strano e slegato concept di vaga ispirazione fantascientifica che evoca nel titolo un film horror del 1961, rappezzato in 5 mesi di lavoro a singhiozzo («come un Frankenstein», dirà Ferguson), Dr. Sardonicus sta miracolosamente in piedi, coeso nel sound e filante nella sequenza. Passerà alla storia come 1 dei massimi capolavori della psichedelìa californiana, ma bisogna intendersi sul termine: siamo distanti dagli anarcoidi gruppi di Frisco, dai Grateful Dead e dai Jefferson Airplane, dai Quicksilver Messenger Service e dai Moby Grape. Gli Spirit, soprattutto in questo disco, sono decisamente più pop, concisi, strutturati: per volontà di Ferguson, soprattutto, perché Randy, incitato da Hendrix, vorrebbe correre più libero e selvaggio. In studio, però, accetta suo malgrado di sottoporsi a una più ferrea disciplina: capace com’è di piccoli prodigi e di giochi virtuosi con gli effetti e con l’echoplex (ascoltate certe introduzioni space e la sua improvvisazione strumentale, letteralmente un Country Feedback, contenute nel disco dal vivo), si mette al servizio delle canzoni con una misura, uno stile e un tocco elegante sconosciuti a molti altri celebrati chitarristi del periodo. Lui e il resto della band, del resto, sono dei camaleonti.
Incantano con le armonie vocali sofisticate e il mood malinconico di Nature’s Way, ballata ecologista e 1 dei più bei pezzi d’epoca (un mistero la sua pessima performance come singolo: non andrà oltre il N°111 nelle classifiche americane di Billboard). Graffiano con la chitarra slide e i riff di Nothin’ To Hide, preceduta da un delicato preludio acustico; con il proto doom di When I Touch You; con Sweet Worm (arricchita da un altro assolo in cui California evita le scale blues mandate a memoria da tanti contemporanei) e con Morning Will Come, dove gli Spirit sembrano anticipare il glam e i T. Rex. Fanno battere il piede con la vivace e orecchiabile Animal Zoo, un’altra ode al ritorno alla natura sviluppata su un ritmo alla Bo Diddley. Scaldano il cuore e i muscoli con il vigoroso r&b fiatistico di Mr. Skin, che prende il titolo dal soprannome affibbiato al calvo Cassidy. Guardano all’Inghilterra e ai Beatles con Love Has Found A Way (sono l’unico a cogliervi un germe anticipatore degli XTC?) e Why Can’t I Be Free?. Costeggiano le sponde della lounge jazzata e futuristica con lo strumentale Space Child, dove Locke si produce in un pionieristico assolo di synth. Evocano gentili atmosfere pastorali in Life Has Just Begun e respirano a pieni polmoni con la ballad conclusiva, Soldier.
Non ci sono filler, nessun riempitivo, ma forse quel girovagare tra gli stili manifesta un’elusività difficile da afferrare per il grande pubblico, che infatti – così come la critica dell’epoca — gli riserverà un’accoglienza piuttosto fredda (N° 63 negli Usa e 49 in Canada, un po’ meglio in Inghilterra dove si incunea ai bordi della Top 30) raggelando definitivamente i loro sogni di gloria. Oltre 50 anni dopo, la prospettiva storica gli restituisce il posto che merita e il doppio Esoteric aggiunge informazioni che ne arricchiscono la comprensione. Non sono tanto le 11 bonus, diverse delle quali già pubblicate in riedizioni precedenti; non sono i missaggi mono, le b side e le backing track a fornire dettagli importanti al quadro generale, anche se Rougher Road è una eccellente outtake in stile Byrds, Red Light Roll On sfodera il lato più eccentrico e improvvisativo della band, Walking On My Feet è un piacevole bozzetto introspettivo e una sgangherata Nature’s Way per voce e chitarra registrata anch’essa al Fillmore West nel maggio del 1970 coglie un momento storico (California la presenta dicendo di averla composta quello stesso pomeriggio).
Randy California (1951-1997)
Vi provvede piuttosto il live di qualità audio variabile dall’eccellente all’appena accettabile (nelle note Skidmore spiega di avere sudato le proverbiali sette camicie per restaurare i nastri a disposizione, ricostruendo una scaletta plausibile dello show e recuperando un pezzo altrimenti inutilizzabile, Mechanical World, da un’esibizione dell’ottobre di quell’anno al Boston Tea Party): un bel cocktail che mixa pezzi di Dr. Sardonicus, vecchi e nuovi cavalli di battaglia (l’orwelliana 1984, All The Same, la mutevole e acida Fresh Garbage, la sognante It Shall Be, una I’m Truckin’ che ricorda i Grateful Dead quando a cantare era Pigpen) e titoli non inclusi nei loro album ufficiali (il downtempo spaziale di Sweet Stella Baby, il blues di Jealous, la strumentale Fog), con California libero di sfogarsi alla sei corde e un gruppo capace anche dal vivo di passare in scioltezza dal rock lisergico alle atmosfere jazzate, dal folk elettrico alla pop music di influenza britannica, anche se certe sottigliezze e sfumature delle incisioni di studio restano irriproducibili.
Per quello c’è Twelve Dreams Of Dr. Sardonicus: bello, importante, rivoluzionario e diverso quanto lo era stato 3 anni prima Forever Changes dei Love, un altro prodotto dello stesso clima culturale e della stessa città, Los Angeles. Un Frankenstein bellissimo, seducente, per nulla invecchiato.