Ticchettìo di orologi, voci alla radio, vetri infranti, esplosioni, gabbiani e onde marine, parole e melodie che affiorano, svaniscono, ritornano. Sono trascorsi 25 anni da Amused To Death, 34 da The Final Cut, 37 da The Wall e 40 da Animals ma il tormentato, cupo mondo poetico di Roger Waters rimane istantaneamente riconoscibile. Come se un unico, robusto filo d’Arianna unisse le tappe del suo percorso artistico e creativo, scandito da pochissimi dischi e (ultimamente) molti concerti. Ci sono nuovi bersagli da prendere di mira, primo tra tutti il nuovo Presidente degli Stati Uniti: quello «sciocco senza cervello» di Donald Trump. Cambiano gli scenari e i mezzi di distruzione di massa (oggi che sono i droni e le “bombe intelligenti” a far piazza pulita di vite innocenti e a produrre effetti collaterali non calcolati), ma gli orrori e gli errori del genere umano si ripetono con tragica ineluttabilità: nuovi muri e nuove barriere ad arrestare i disperati che premono alle frontiere; ciniche guerre d’interesse; odio e terrorismo alimentati dalle religioni; la paura dell’altro e del diverso; il disinteresse e l’ignavia collettive; le coscienze cloroformizzate di noi occidentali; la paura controllata ad arte che ci tiene chiusi in casa disciplinati come greggi di pecore dentro il recinto. Solo l’amore (per un uomo o una donna, per il genere umano, per la libertà) potrà salvarci e offrirci un’occasione di riscatto.
I dischi di Waters sono così, prendere o lasciare: “pamphlet” sociopolitici che l’ex Pink Floyd ti sbatte in faccia con la virulenza e la visione manichea di un Oliver Stone (quante paroline a 4 lettere, nei testi…). Li salva e li eleva a forma d’arte il “pathos” autentico che il musicista inglese sa infondere alla sua visione (e che lo distanzia nettamente dalla placida perfezione formale delle ultime, esangui opere dell’ex socio David Gilmour); la “pietas” umana che a tratti ne smussa gli angoli più taglienti e scorbutici del carattere; la voglia (anche a 73 anni ben portati) di rischiare posizioni impopolari (la dura polemica con Israele…) e di entrare ancora nel vivo della scena. Nel gioco voluto di autocitazioni, testuali e musicali, non tutto è come prima: perché se è vero che Is This The Life We Really Want? è pieno di espliciti rimandi alla produzione passata del rocker inglese e soprattutto al catalogo “floydiano” – la plumbea atmosfera di Picture That rievoca Sheep e i fraseggi tastieristici di Richard Wright; il ritmo funkeggiante di Smell The Roses ricollega la mente in automatico a Have A Cigar; gli accordi di chitarra acustica e la voce di Roger capace di passare dal sussurro al grido replicano l’atmosfera dei pezzi più intimisti e lacerati di The Wall – mai si era sentito prima un album “watersiano” così poco chitarristico. Non c’è Gilmour, ma non ci sono neanche Jeff Beck o Eric Clapton; e neppure i 3 chitarristi con cui il bassista si accompagna solitamente dal vivo, mentre il jolly polistrumentista Jonathan Wilson (il nome più in vista fra quelli annotati nei crediti) gioca di rimessa e a nascondino. Prevale, nel disco, un’omogeneità stilistica e di tono giustificata dalla circolarità di un percorso che inizia e finisce con le stesse parole e i medesimi rumori di fondo; un ritmo lento e sospeso, una forma di canzone a base di chitarra acustica, archi e pianoforte dai suoni perfettamente calibrati, classici e moderni al tempo stesso, che molto deve alla mano del produttore Nigel Godrich (il “soundman” storico dei Radiohead, che porta in dote il background acquisito con il gruppo di Oxford).
È soprattutto un disco di ballate, Is This The Life We Really Want?. Dolorose come Déjà Vu, in cui l’urlo strozzato di Waters raffigura il suo sdegno per le guerre che ancora insanguinano il mondo. Struggenti come The Last Refugee, che fotografa meglio di un reportage giornalistico il dramma dell’immigrazione. Cangianti come Broken Bones, con un inizio contemplativo e notturno che lascia spazio a un’invocazione alla libertà perduta e a un lamento per la sottomissione all’American Way Of Life. Sinuose come la title track, ritmo metronomico e serpentine melodie in odor di King Crimson. Toccanti come The Most Beautiful Girl, ispirata alla tragica storia di una ragazza yemenita raccontata nel film documentario Dirty Wars. E avvolgenti come Wait For Her, Oceans Apart e Part Of Me Died: 3 parti di una “mini suite” conclusiva, sorprendente nella sua malinconica tenerezza. Is This The Life We Really Want? dipinge un’apocalisse in corso ma coltiva anche un refolo d’ottimismo, una residua speranza sulla capacità umana di partecipare, condividere e mostrare empatia, solidarietà. È a tratti monocorde, ma è un bicchiere da bere tutto d’un fiato. Un’opera non superflua e anzi rilevante, poiché ancora capace di scalfire le coscienze e di suscitare emozione; da assorbire dall’inizio alla fine senza interruzioni e senza distrazioni, dove il tutto vale più della somma delle singole parti. È il ritratto e il manifesto sincero di un artista a cui l’età e l’esperienza non hanno sottratto ardore e passione civile esaltandone il lato fragile e compassionevole. È questo a renderlo un disco importante, dopo un silenzio discografico che pareva eterno.