Jimi Hendrix batte Eric Clapton nel turno finale di una sfida tra chitarristi ambientata in un villaggio nativo americano. John Lennon si materializza un pomeriggio a bordo piscina, in una casa di campagna del Novarese. Grace Slick si aggira in una città nebbiosa che non è San Francisco ma assomiglia tanto a Milano mentre a New York, dopo un concerto dei Rage Against The Machine, infuria una battaglia per le strade. E poi un uomo venuto dallo spazio che altri non è che David Bowie, un romantico ballo con Joan Baez, un incontro in ascensore con Paul McCartney, un piatto di funghi che rischia di mettere k.o. Bruce Springsteen, il tacco di una scarpa che si rompe prima di una cena di gala a Londra con i Pink Floyd. Incontri reali e immaginari con Allen Ginsberg e Bob Dylan, con Jerry Garcia ed Eddie Vedder, con i Rolling Stones e con i Queen. E viaggi tra il Marocco e l’Ovest nordamericano, con una sosta obbligata a Woodstock (e a Bethel, il vero luogo in cui si tenne il celeberrimo festival).

In Rockonti – Storie ai confini tra fantasia e realtà, Massimo Bonelli, ex dirigente discografico di EMI e Sony Music, mescola sorprendentemente e con leggerezza ricordi di vita vissuta e finzione, intrecciando biografia personale e mitologia rock in una dimensione onirica, fiabesca, ricca di immaginazione. Quanta realtà e quanta finzione? “Da me non lo saprete mai”, dichiara l’autore in quarta di copertina. “Preferisco sognare e farvi sognare”.

Massimo Bonelli

Sei forse il 1° discografico, nel panorama editoriale internazionale, a pubblicare un libro che non racconta i retroscena del music business.
«Mi sembrava banale scrivere di esperienze che potevano riguardare me come tanti altri miei colleghi. Finiscono per assomigliarsi tutte, le nostre biografie, anche se uno di noi ha lavorato con Bruce Springsteen e l’altro con Lou Reed. Mi sarei annoiato a morte, a scrivere una cronaca spogliata di qualsiasi magia. Nel libro ho narrato anche episodi realmente avvenuti, nascondendoli però sotto un velo che non ti fa capire esattamente dove stia la verità. Così, per esempio, anche un viaggio in macchina notturno con Limahl finisce per avere un sapore decisamente avventuroso».

Del resto lo anticipi tu stesso: a volte gli incontri diretti con gli artisti rivelano personaggi meno interessanti di quanto appaiano in pubblico…
«È così, in effetti. Probabilmente la loro vita privata è più ricca di quanto possiamo capire frequentandoli per lavoro 2 o 3 giorni alla volta. Questo è anche uno dei motivi per cui ho deciso di escludere dai miei racconti gli artisti italiani, anche se si tratta ovviamente delle persone che ho frequentato con maggiore costanza: con alcuni di loro, come Ivano Fossati o Francesco De Gregori, ho trovato certe affinità e si è sviluppato un rapporto più intimo e personale che mi ha portato anche a conoscerne la normalità quotidiana. È più facile liberare la fantasia se si raccontano personaggi più distanti: e mi piace pensare che magari Bruce Springsteen, Bob Dylan o Roger Waters apprezzerebbero il modo in cui ho “condito” le storie che li vedono protagonisti».

Qualche anno fa avevi già scritto un libro, La vera fiaba di MJ, prendendo spunto da un personaggio reale – Michael Jackson, appunto – per poi aprire le porte all’immaginazione. Quando hai scoperto questa vena da scrittore?
«Solo di recente. Tanti anni fa, su invito del fotografo Armando Gallo, avevo scritto una sorta di biografia di Paul McCartney, un libro privo di valore di cui oggi quasi mi vergogno. Sono molto più orgoglioso di La vera fiaba di MJ, che in qualche modo si ricollega nella struttura a Rockonti. Lì, 2 capitoli su 3 erano puro frutto della fantasia, mentre nel 3° raccontavo in maniera fiabesca anche fatti reali. È un espediente che mi consente di mettermi al riparo dalle contestazioni su ciò che scrivo: usando la fantasia posso permettermi di raccontare quel che desidero, senza limiti. La spinta a scrivere me l’ha data qualche anno fa l’amico giornalista Massimo Poggini, che mi aveva chiesto di contribuire in totale libertà a un sito/blog di sua creazione che si chiama Spettakolo. Sono partito dalla pura cronaca di fatti che mi erano accaduti per poi sviluppare una serie di “rockonti”: fu proprio dopo averne letto uno che l’editore de La vera fiaba di MJ mi chiamò proponendomi di scrivere un libro».

Bonelli  con Tina Turner

In Rockonti non ci sono solo i grandi del rock ma anche tanti luoghi e molti viaggi. È evidentemente un libro scritto da una persona curiosa e che ama girare il mondo. In un certo senso, un libro “on the road”. C’è pure un racconto dedicato alla Beat Generation: è stata una fonte d’ispirazione, per il tuo modo di scrivere?
«Quel che ho letto di Allen Ginsberg o di Jack Kerouac è raccontato con un linguaggio molto più crudo del mio, privo di qualunque filtro. Nel raccontare del mio amore platonico per Joan Baez o per Grace Slick, per esempio, io ho cercato di essere più delicato e in un certo senso “poetico”, anche se del poeta non ho le qualità. Ho visitato i santuari beat a San Francisco, il City Lights Bookstore di Lawrence Ferlinghetti, i caffè Tosca e Vesuvio; e l’atmosfera di quei luoghi è stata sicuramente una fonte d’ispirazione, anche se in realtà il mio racconto sulla Beat Generation ha preso spunto soprattutto dalla visione di Midnight In Paris, il film di Woody Allen il cui protagonista viene catapultato in un meraviglioso passato che gli dà modo di incontrare i suoi poeti, scrittori e artisti preferiti».

A un certo punto, in quelle pagine, scrivi una verità incontestabile: “Un paio di canzoni di John Lennon hanno fatto più proseliti di tutta la letteratura beat”.
«È così. La musica è una forma d’arte immediata che ti colpisce subito: nel mio caso con la melodia e l’armonia, prima ancora che con i testi».

Il 1° racconto, Alla ricerca del suono perduto, è forse il più sorprendente. Un piccolo romanzo, la sceneggiatura di un film d’ambientazione esotica il cui personaggio musicale viene svelato sono alla fine, nell’ultima riga.
«È il resoconto romanzato di un viaggio che ho fatto per davvero, trovandomi esattamente nelle situazioni che vengono raccontate, anche se ci ho aggiunto una componente musicale estranea. È simile, in questo, al capitolo che ho dedicato a un mio viaggio negli Stati Uniti, On the Rock again: la musica che evoco è quella che ascoltavo in auto passando da uno Stato all’altro. C’è una stretta corrispondenza tra i luoghi – i villaggi indiani, i deserti, gli spazi immensi tra Arizona e New Mexico, la visita a una città meravigliosa come Santa Fe – e le canzoni che sentivo alla radio mentre viaggiavo. Il racconto che più di ogni altro combina luoghi e situazioni apparentemente incompatibili tra loro è invece quello che ho dedicato a Jerry Garcia: l’idea mi è venuta in un posto lontanissimo dal suo mondo, tra i grattacieli avveniristici e il caos di Shanghai, quando improvvisamente mi sono ritrovato ad attraversare un piccolo giardino silenzioso percependo dei suoni dolcissimi e ipnotici che provenivano dall’altra sponda di uno stagno. Mi è tornato in mente il Love Theme che Garcia aveva composto per il film Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. E lì è scattata l’immaginazione».

L’ex dirigente discografico insieme a Eric Clapton

Ci sono personaggi ricorrenti, che compaiono in più occasioni: Jimi Hendrix, David Bowie, John Lennon. Personaggi che tu descrivi, in certi casi, come provenienti dal futuro, sciamanici, dotati di poteri magici…
«Sono i personaggi che più di altri ti aiutano a volare con la fantasia, anche perché non sono più qui tra noi. Con un musicista concreto e calato nella realtà come Springsteen, sarebbe stato certamente più difficile. La percezione di Bowie come un extraterrestre arriva da lontano, mentre negli altri casi ho scelto un’ambientazione decisamente più terrestre. 1 dei 2 capitoli su Lennon è legato alla magia del Natale newyorkese, l’altro è ambientato nella mia casa di campagna, in un assolato pomeriggio estivo trascorso a conversare del più e del meno con gli occhi chiusi e con i piedi a mollo in piscina. Ho immaginato Lennon tra gli abitanti di quel Pianeta Rock di cui avevo già scritto nel libro precedente: un luogo ideale, che per me assomiglia al Paradiso e in cui musicisti di tutte le epoche hanno modo di incontrarsi, mescolarsi e suonare tra loro: Duke Ellington in jam session con Freddie Mercury o con Frank Zappa… Anche Hendrix compare in 2 racconti diversi: il 1° è il pretesto per descrivere i colori, le atmosfere e le avventure di un viaggio; l’altro, una vecchia idea che mi era venuta in mente una sera mentre conversavo a cena con qualche artista e dei colleghi: un festival in un villaggio indiano, in cui i più grandi chitarristi della storia del rock si sfidano tra di loro».

John Lennon ospite a casa tua, Grace Slick in un posto che sembra Milano: la dislocazione spazio-temporale dei racconti ne amplifica la dimensione onirica.
«La Slick l’ho immaginata a Milano, è vero, anche se non lo scrivo e potrebbe trattarsi di un’altra città. Mi sono ricordato degli anni scolastici trascorsi al Liceo Dante Alighieri, vicino a Piazza Cinque Giornate. Delle mie lunghe attese invernali di un tram che vedevi arrivare lentamente da lontano e di un vespasiano che si trovava vicino alla fermata…».

Con Leonard Cohen

Quello è un racconto particolarmente ricco di citazioni musicali, apprezzabili da chi conosce quella musica… Una chiave di lettura in più.
«Infatti. Io non so suonare nessuno strumento, ma se mi fai vedere la copertina di un disco la musica mi inonda immediatamente la testa. Mi sento come un iPod umano, conservo dentro di me tutto quello che ho ascoltato fino a oggi».

Torniamo al Pianeta Rock. Ai suoi abitanti, a un certo punto, fai dire che oggi, sulla Terra, si è spenta la creatività. È questa la tua opinione del presente?
«Credo che in parte sia così. Chi è intelligente, chi ha una mentalità aperta e ama la musica sceglie inizialmente quella che gli è più affine, ma poi amplia i suoi orizzonti. In quel caso, il mio messaggio era rivolto ai tossicodipendenti della televisione; a chi cerca scorciatoie e semplificazioni invece di dare sfogo alla curiosità e provare il gusto della ricerca. A chi cade vittima della pigrizia mentale e passa le giornate attaccato a uno smartphone, a un computer o a piattaforme come Spotify che offrono un servizio ma non ti incoraggiano a scoprire autonomamente le cose. Non capisco chi si definisce un amante del prog, o del blues: è una limitazione mentale, la musica non si può suddividere in generi se non per le esigenze di classificazione di un negozio. È la testa di certi ascoltatori a dividerla in compartimenti stagni: nella musica contano le emozioni, non le etichette».

In altri momenti del libro la realtà e la cronaca sembrano emergere in modo più evidente: la conferenza stampa dei Queen a Milano, l’incontro con i Pink Floyd a Londra alla festa della Harvest…
«Lì è quasi tutto vero: a partire dall’incidente che a Londra mi capitò prima di sedermi a tavola con il gruppo. Solo l’ultima frase attribuita a Roger Waters è inventata, per rendere l’episodio più intrigante e proiettarne il senso nel futuro».

Insieme a David Gilmour

Nel racconto finale e riepilogativo, My Generation, ribadisci ripetutamente un concetto: “io c’ero”. Chi ha vissuto in presa diretta gli anni 60 e 70 ha sperimentato, anche musicalmente, un’epoca irripetibile?
«Se i modelli di fruizione restano quelli di oggi, la musica non potrà più essere importante come lo è stata per la mia generazione. In un album c’è molto più di una hit da ascoltare distrattamente. Se di un libro leggi soltanto una pagina o un capitolo, non puoi capirlo. Lo stesso capita con la musica, se l’ascolto ha la velocità di un lampo. Non sono in grado di giudicare la valenza dell’hip hop o di altre realtà musicali contemporanee, ma mi fa piacere vedere ragazzi che seguono personaggi come Jack White o Jonathan Wilson, artisti che si rifanno a un mondo musicale con radici profonde. La musica bella esiste, ma devi cercarla. Non ti arriva da fuori: non ti arriva dalle radio, dalla televisione o dalla cultura usa e getta contemporanea».

In coda al libro hai inserito una playlist di canzoni suggerite come accompagnamento alla lettura. È
la musica che ascoltavi mentre scrivevi?
«La necessità di compilare delle playlist è nata quando, in una forma completamente diversa da quella del libro, avevo iniziato a proporre alcuni miei Rockonti in un programma di Radio Popolare. Quando questi non trattavano di artisti particolari, mi sono sbizzarrito nel trovare musiche che ritenevo adatte. Soprattutto in My Generation ho incluso brani cardine della mia formazione e rappresentativi di ciò che narro in tutto il resto del libro: così sono riuscito a metterci anche Roy Harper, l’artista che amo di più».

Massimo Bonelli, Rockonti – Storie ai confini tra fantasia e realtà, Caissa Italia, 176 pagine, € 15.90