L’energia dell’arte italiana non aveva paragone in nessun altro paese d’Europa ”, annotò il newyorkese Alan Jones in uno dei suoi testi critici sulla Pop Art. “Peccato”, la sua considerazione finale, “che non si poteva chiamarlo all’epoca Neo-Futurismo, un tabù che esigeva l’uso del termine Neo-Dada. Marinetti avrebbe capito subito la convergenza dell’arte, del design, della moda, della musica e dei nuovi mezzi tecnologici. Marinetti al light-show al Piper ”.

Che nel 1965 la Pop Art italiana abbia difatti “customizzato ” il retropalco del leggendario Piper Club lo testimonia Il Giardino di Ursula, pannello extradimensionale di Claudio Cintoli dedicato alla Bond girl Ursula Andress, allo scopo d’innescare una sorta di Exploding Plastic Inevitable Show alla romana voglioso d’eleggere i teenagers a protagonisti della società contemporanea.

Umberto Buscioni, Particolari, 1967, Pistoia, Courtesy Archivio Buscioni e Galleria Spazio A 

Che poi, sempre nel 1965, Mario Schifano abbia marinettianamente dipinto il suo Futurismo rivisitato – Balla e nel 1967 si sia addirittura inventato una band, Le Stelle di Mario Schifano, entrando idealmente in contatto con i Velvet Underground benedetti da Andy Warhol, la dice lunga sul “perché la Pop Art è stata senza ombra di dubbio, anche in Italia, lo specchio del proprio tempo: critico talvolta, talvolta disimpegnato, spesso divertito e disincantato, ma mai indifferente ”, scrive Walter Guadagnini, curatore di ’60 Pop Art Italia fino al 14 luglio 2024 al Palazzo Buontalenti di Pistoia. Mostra in prodigiosa, sostanziale empatìa con Pop/Beat – Italia 1960-1979, alla Basilica Palladiana di Vicenza fino al 28 luglio 2024 con la curatela di Roberto Floreani.

Gianni Ruffi, Mare a dondolo, 1967, Collezione dell’artista

Accessoriata da una sessantina di opere una più bella dell’altra, la narrazione di ’60 Pop Art Italia non può che iniziare dalla Biennale d’Arte veneziana del 1964, quella del blitz a stelle e strisce di Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Jim Dine e Claes Oldenburg (“La giuria interna­zionale supinamente accettò di dare il Gran Pre­mio a Rauschenberg perché così si aveva da fare ”, scrisse Enrico Baj nel libro L’ecologia dell’arte, “ma quando il verbale era già ste­so e il premio deliberato, ci si accorse che entro il recinto della Biennale non era esposta nean­che un’opera di Rauschenberg, che la si dovette di corsa e in gran segreto recuperare e mettere in mostra nel padiglione americano ”) contrapposto alle nascenti variazioni d’arte Pop dello stesso Baj, di Mimmo Rotella, di Mario Schifano, di Tano Festa e di Franco Angeli. In parallelo, alla Triennale di Milano, viene esposto ciò che è culturalmente “pop ”: dal gigantesco murale del britannico Joe Tilson, al collage su tavola del solitamente spazialista Roberto Crippa, intitolato La mia Marilyn, che per la sua particolarità è il simbolo indiscusso della mostra pistoiese.

Roberto Crippa, La mia Marilyn, 1964, Collezione privata

La Pop Art italiana ha avuto a Roma la sua “sede nazionale ” con la cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo di artisti quali Mario Schifano (fondamentale in mostra Tutta Propaganda, che osa far collidere il logo della Coca-Cola con il monocromo e il graffio dell’Informale), Tano Festa (un “rinascimentale Michelangelo according to Tano Festa), Franco Angeli (l’orrorifica, sbavante lupa capitolina), Mimmo Rotella (il décollage C’era una volta), Renato Mambor (Zebra e Colosseo; Navona Square), Mario Ceroli (Goldfinger/Miss, scultura in legno dorato che moltiplica la Nascita di Venere botticelliana), Sergio Lombardo (la sagoma nera di McNamara, tratta dal ciclo dei Gesti Tipici) e Cesare Tacchi con i suoi estroflessi quadri-oggetto realizzati con tappezzerie, rasi e stoffe.

Mario Ceroli, Goldfinger/Miss, 1964, Roma, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali

Ma lo scopo principale di ’60 Pop Art Italia è puntare sulla “regionalizzazione ” del movimento: soffermandosi anzitutto sulle 5 artiste che hanno contribuito alla sua diffusione nazionale e internazionale (Giosetta Fioroni, Titina Maselli, Marisa Busanel, Laura Grisi, Anna Comba) e poi sulla straordinaria Scuola di Pistoia formata da Umberto Buscioni e le sue fantasmatiche, svolazzanti camicie e cravatte; da Roberto Barni e i suoi particolari di mappe geografiche, paesaggi e treni; da Gianni Ruffi e la sua oggettistica fuori scala, estrapolata dalla quotidianità.

Elio Marchegiani, Progetto per una lapide luminosa a James Bond, 1965, Torino, GAM

Si prosegue con Milano, che da una parte schiera Enrico Baj con i suoi collage, le sue stoffe e le sue passamanerie occhieggianti il Nouveau Réalisme francese; e dall’altra propone Emilio Tadini, Valerio Adami e Lucio Del Pezzo, più orientati alla British Pop Art, ai quali va aggiunto il più consumista, caricaturale e kitsch in assoluto: Antonio Fomez. E se in quel di Torino l’arte Pop è una questione di quadri specchianti (Michelangelo Pistoletto), rigogliosi tappeti natura (Piero Gilardi), ironici calembours (Aldo Mondino), lignee silhouettes della più varia umanità (Piero Gallina) e puzzle policromatici (Ugo Nespolo), dal nord al sud del Belpaese Concetto Pozzati, Roberto Malquori, Ettore Innocente, Paolo Baratella, Remo Gordigiani, Plinio Mesciulam, Alberto Moretti, Antonino Titone ed Elio Marchegiani (insieme alla Marilyn di Crippa il suo Progetto per una lapide luminosa a James Bond vale il prezzo del biglietto) hanno modo di sbizzarrirsi nel loro essere “popular ”.

Sergio Sarri, Figura e boomerang, 1969, Collezione Koelliker, Courtesy BKV Fine Art

Altro giro, altro approccio in Pop/Beat – Italia 1960-1979, sottotitolato Liberi di sognare. Non solo, cioè, ottimismo nei confronti del futuro bensì un forte impegno movimentista che guarda al Sessantotto dei mutamenti sociopolitici e culturali nelle piazze, nelle fabbriche, negli atenei universitari. “Un progetto ”, scrive il curatore Roberto Floreani, “che supera le barriere strettamente storiografiche, le rispettive rivendicazioni tematiche individuali, le stesse classificazioni Pop e Beat in gran parte nemmeno condivise dagli stessi artisti che han finito col farne parte ”. Pittura, scultura, video e letteratura, dunque, riempiono i prestigiosi spazi della Basilica Palladiana all’insegna di una mostra scientificamente coraggiosa e insieme divertente, leggera, per tutti, che per la prima volta racconta ed espone insieme le generazioni Pop e Beat italiane.

Aldo Mondino, Vento, 1965, Courtesy Galleria Erica, Ravenna

Con un centinaio di opere di 35 artisti, vengono privilegiati i grandi formati inclusa una spettacolare sezione di sculture: quelle di Gino Marotta, in metacrilato, che indagano la dicotomìa Natura-Artificio declinando il mondo vegetale e animale; quelle di Tino Stefanoni, realizzate in ferro zincato verniciato a fuoco, che raffigurano inesistenti segnali stradali; quelle di Mario Ceroli, in legno grezzo, che antepongono la sagoma umana all’oggetto pop; quelle di Alik Cavaliere, in un intreccio metafisico di saldature, fusioni, sbalzi, assemblaggi e gabbie.

Gianni Bertini, Stilmec, 1967, Collezione privata, Courtesy Frittelli arte contemporanea, Firenze

In pittura, oltre agli immancabili Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa, Enrico Baj, Mimmo Rotella, Emilio Tadini e Valerio Adami, a distinguersi sono i più arrabbiati e politicamente coinvolti Paolo Baratella (la sua Morte di Superman è di un’attualità sconvolgente), Fernando De Filippi (il cinematografico acrilico su tela Lenin parla agli operai e ai soldati alla stazione di Finlandia a Pietrogrado) e Giangiacomo Spadari (Le bandiere della lotta); l’inquietante, “sadomasochistico Sergio Sarri dei fumettistici uomini-macchine adagiati su tavoli di contenzione; il visionario Umberto Mariani degli Oggetti allarmanti che combinano arredamento, design e moda; il vivace, concettuale Aldo Mondino di un quadro come Vento: sostenuto, in apparenza, da un palloncino; Bruno Di Bello, tra i fondatori del Gruppo 58, che scompone il Ritratto di Paul Klee un poco alla volta, sino a farne un’opera cubista; il meccanicistico Gianni Bertini, che ritrae indossatrici/ingranaggi richiamando la comunicazione pubblicitaria e televisiva; l’estetizzante Cesare Tacchi, con le sue tridimensionali opere imbottite che reinterpretano la pubblicità e la comunicazione di massa.

Cesare Tacchi, Coppia felice, 1966, Collezione privata, Courtesy Galleria Erica, Ravenna

Infine il Beat, che non solo viene scandito dalla musica di quegli anni diffusa in loop, ma letterariamente rappresentato dai documenti originali di Gianni Milano, Aldo Piromalli, Andrea D’Anna, Gianni De Martino, Pietro Tartamella, Eros Alesi, Vincenzo Parrella e altri ancora, nonché dalla vicenda artistica militante di quell’Antigruppo siciliano guidato dal carismatico Nat Scamacca.

E così, fatalmente, si dovrà abbandonare la Libertà di sognare per raggiungere la Fine del sogno: triturando gli anni di piombo e le droghe pesanti, messe in scena nel 1979 in tutta la loro crudezza al Festival Internazionale dei Poeti, sulla “spiaggia libera ” di Castelporziano.

’60 Pop Art Italia
Fino al 14 luglio 2024, Palazzo Buontalenti, via De’ Rossi 7, Pistoia
tel. 0573974267
Catalogo Electa, € 35

Pop/Beat Italia – 1960-1979
Fino al 28 luglio 2024, Basilica Palladiana, piazza dei Signori, Vicenza
tel. 04441970029
Catalogo Silvana Editoriale, € 32