Compie 50 anni tondi oggi, 1° marzo 2023, The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd. Non influente come il Sgt. Pepper beatlesiano o l’Highway 61 Revisited di Bob Dylan; non venduto quanto Thriller di Michael Jackson (che negli anni 80 poteva contare su canali promozionali e distributivi infinitamente più potenti), ma forse il disco più famoso della storia del pop-rock.
Il più onnipresente (1 casa su 4 in Inghilterra, secondo calcoli ormai antichi). Il più longevo e anzi immortale, se ancora oggi in Italia – il Paese che più di ogni altro ai Floyd ha sempre riservato un affetto unico e speciale – staziona nella Top 40 degli album più venduti (N°3 fra i vinili, questa settimana, dopo i reduci sanremesi Levante e Lazza) ed è 1 dei pochi dischi capaci di affratellare padri e figli, boomers e millennials, che continuano a comprarne copie usate, riedizioni e ristampe.
Roger Waters, Nick Mason, David Gilmour, Richard Wright
Un box set celebrativo del 50° anniversario, annunciato per il 24 marzo 2023, lo ripropone e lo espande su 2 Cd, 2 Lp, l’album The Dark Side Of The Moon – Live At Wembley Empire Pool, London, 1974, 2 Blu-ray audio, 1 Dvd audio e 2 45 giri con il contorno di gadget assortiti e di 1 libro di 160 pagine disponibile anche autonomamente e pubblicato in Italia da Rizzoli Lizard; mentre Roger Waters ha da poco annunciato a sorpresa di averlo riregistrato ex-novo, rivendicandone la paternità e dichiarando senza perifrasi che, a dispetto del contributo dei suoi 3 compagni, quel disco era un suo progetto e che fu lui a scriverlo per intero.
In tanti hanno cercato di sondarne il mistero, di analizzare le ragioni di un successo senza precedenti e probabilmente non replicabile. Persino Nick Mason, il batterista della band, che nell’autobiografia Inside Out racconta la sorpresa del gruppo di fronte a una performance commerciale straordinaria fin dall’inizio; e cita come possibili ragioni la forza dei testi (“sufficientemente chiari e semplici da risultare comprensibili anche a chi non era di madrelingua inglese”), la qualità della musica (“guidata dalla chitarra e dalla voce di David [Gilmour] e dalle tastiere di Rick [Wright]”), l’eccellenza sonora (con il 16 piste da poco in dotazione ad Abbey Road l’ingegnere del suono Alan Parsons fece miracoli) e l’impatto grafico dell’iconica copertina: il famoso prisma che riflette la luce su sfondo nero; un’immagine nitida e affusolata come la musica contenuta nel disco.
Chi (come me) ha vissuto quei tempi in diretta e lo acquistò il giorno stesso d’uscita, ricorda ancora la meraviglia di quel sound liquido, morbido e avvolgente che usciva dalle casse (effetto, anche, della registrazione in quadrifonia), persino se il tuo giradischi era un piccolo compatto senza pretese e a bassa fedeltà: non a caso diventò subito il disco di riferimento, nei negozi di hi-fi, per testare la qualità degli impianti. Quel suono e quelle canzoni lasciarono spiazzati non pochi critici, che nelle loro recensioni spesso non espressero grandi entusiasmi; ma anche fan della prima ora, abituati alle favole psichedeliche di Syd Barrett; a suite ambiziose come Atom Heart Mother ed Echoes; ai viaggi spaziali di Interstellar Overdrive, Astronomy Domine e Set The Controls For The Heart Of The Sun. Mentre ora si trovavano di fronte a quei cori femminili persino un po’ invadenti, ad arrangiamenti compatti e calibrati, al sax vellutato e carezzevole di Dick Parry nella sognante Us And Them (roba da lounge music e musica da ascensori, secondo i detrattori).
A un flusso di musica ininterrotta, 42 minuti e 50 secondi da ascoltare d’un fiato, ma anche a canzoni come Money (uscita come singolo negli Stati Uniti) e Time che potevi ascoltare (e ascolti ancora oggi) alla radio, pilastri fondanti di quello che oggi chiamiamo classic rock. Uno dei suoi segreti rimane il fatto di essere un disco “a cipolla“,”a strati “, buono per ogni occasione e quasi per ogni palato; il cruciale punto di snodo che avrebbe fatto dei Floyd un gruppo non più underground ma mainstream; non più da club e da aule magne universitarie ma da arene e da stadio. Puoi gustarne la piacevolezza smooth e i pieni sonori, farti sorprendere dagli effetti speciali – il finto battito cardiaco iniziale riprodotto dalla grancassa di Mason, gli inserti parlati, le risate, i ticchettii d’orologio, il tintinnare delle monete, il ritmo dei registratori di cassa (il suono e le voci della vita quotidiana che entrano in un disco rock) – oppure approfondire il concept che lo sottende, la prima incursione di Waters nelle sue preoccupazioni e nelle sue paranoie: lo stress e le pressioni della vita moderna, la corruzione del denaro, la follia che si annida nella mente umana (con il ricordo di Syd bene in testa), la paura d’invecchiare e di morire, un mondo in cui il sole sta per essere eclissato dalla luna. Come tanta musica dei Floyd, anche The Dark Side Of The Moon è un viaggio: non più negli spazi siderali, ma nella mente tormentata dell’uomo: un uomo che in maniera molto inglese vive in uno stato di “quieta disperazione”.
La musica è altrettanto densa e fitta. In Dark Side c’è di tutto: è un disco rock blues (Money, lo sfolgorante solo della Fender di Gilmour in Time); è un disco psichedelico; è un disco cantautorale; è un disco soul (nelle voci delle coriste capeggiate dalla afroamericana Doris Troy); è un disco country (la lap steel di Gilmour in Breathe); è un disco di ballate (l’epica Us And Them, la straLUNAta Brain Damage); è un disco classicheggiante (in certi fraseggi di tastiera di Wright); è un disco sperimentale che ispirerà anche “padrini ” dell’elettronica come i Kraftwerk (i ronzii del sintetizzatore Synthi AKS e gli effetti Doppler di On The Run); è un disco di musica concreta (in tutti i suoi inserti rumoristici); è un disco gospel (laico) negli incredibili, orgasmici vocalizzi senza testo di Clare Torry in The Great Gig In The Sky (titolo provvisorio The Mortality Sequence), poi utilizzata in innumerevoli documentari naturalistici televisivi ma anche, si racconta, negli spettacoli a luci rosse di Amsterdam (del resto i francesi chiamano il post orgasmo la petite mort, e tutto torna).
Eppure è filante e omogeneo, un corpus unico. Parla (anche) di morte e di angoscia, ma è immortale e rimane un rifugio sicuro dalle brutture del mondo. Sfiora l’easy listening ma non rinuncia a osare. Comunica in modo spiccio e diretto con la forma canzone ma affronta temi esistenziali. È semplice e complesso come il modo in cui funziona l’essere umano. È un disco magicamente e misteriosamente ecumenico e sincretico in cui tanti possono riconoscersi e trovare un linguaggio comprensibile. Non sorprendiamoci se i suoi (stimati e da tempo non aggiornati) 45.000.000 di copie diventeranno 50 o 60. Se lo ritroveremo ancora lì, in classifica, fra 10 o 20 anni. Nei supermercati e sulle piattaforme digitali, nelle case dei rock fan, degli audiofili e di chi ha comprato 10 album in vita sua.
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