Per 1 ora, la sera dello scorso venerdì 25 ottobre, la parte superiore dell’Empire State Building newyorkese si è accesa dei colori tie-dye che vestirono l’idealismo hippie degli anni 60 e 1 dei suoi gruppi portabandiera: i Grateful Dead. A oltre 4.600 chilometri di distanza da San Francisco – dove ovviamente hanno cominciato a fioccare celebrazioni e tributi, fra cui un piccolo memoriale eretto davanti all’ingresso della storica casa della band, al 710 di Ashbury Street –  anche la Grande Mela ha voluto rendere omaggio a Phil Lesh, ex bassista e mente avanguardista dei Dead scomparso il giorno stesso, 84enne, dopo vari malanni.

In omaggio a Phil Lesh, l’Empire State Building di New York colorato

Il più famoso grattacielo del mondo aveva fatto altrettanto in altre occasioni, celebrando nella stessa maniera l’80° compleanno virtuale, il 1° agosto 2022, dell’ex compagno di band Jerry Garcia, che da questa terra aveva preso commiato nell’agosto del 1995. È un altro indizio inequivocabile di come quella congrega di musicisti, così ostinatamente alternativa, lontana anni luce dal mainstream e simbolo della controcultura della Summer of Love, sia entrata nel patrimonio genetico e nel tessuto connettivo di tanti americani; e di quanto Lesh – dopo la morte di Jerry l’anima più pura e anche intransigente del gruppo – fosse amato e tenuto in considerazione dalla comunità allargata dei Deadheads, anche se le condizioni di salute lo avevano costretto negli ultimi anni a rallentare di molto le apparizioni dal vivo (l’ultima il 21 luglio scorso a San Rafael, in California, dove aveva la sua residenza).

Fin dall’inizio, era stato lui l’anima più intrepida e coraggiosa dei Grateful Dead, il componente più anarchico e meno malleabile del gruppo (“È evidente che nessuno, nella vostra organizzazione, ha su Phil Lesh abbastanza influenza da indurlo a qualcosa che assomigli a un comportamento normale”, scrisse nel 1967 l’allora presidente della Warner Bros. Records, Joe Smith, in una famosa lettera indirizzata al manager del gruppo Danny Rifkin, mentre erano in corso le registrazioni dell’album Anthem Of The Sun). Era il situazionista anti establishment, il ranger psichedelico che nutriva la sua immaginazione con l’Lsd, l’infaticabile ricercatore del suono perduto (Searching For The Lost Sound: My Life With The Grateful Dead è il titolo della sua autobiografia best seller datata 2005), il copilota che spingeva Garcia/Captain Trips a intraprendere con la mente viaggi avventurosi.

Phil Lesh
1940 – 2024

Jerry, il santone pacioso a cui tutti suo malgrado riconoscevano il ruolo di leader, si era formato ascoltando e suonando musica tradizionale, folk e bluegrass. RonPigpenMcKernan, il tastierista e armonicista biker dall’aria minacciosa con il cappellaccio in testa e il giubbotto di pelle, era un bluesman fatto e finito. Il ragazzino con la faccia d’angelo, Bob Weir, era ambizioso e curioso, ma sul palco cantava i rock and roll di Chuck Berry. Mentre lui, Lesh, alto, biondo, magrissimo, allampanato e (da un certo punto in poi) con gli occhiali da intellettuale, insieme all’amico TomT.C.Constanten (per breve tempo anche lui nei Dead come tastierista aggiunto) aveva frequentato a Oakland un corso di composizione tenuto da Luciano Berio, studiato la tecnica del contrappunto di Johann Sebastian Bach e approfondito l’ascolto di Ludwig van Beethoven, di Igor Stravinskij e di Gustav Mahler, il suo autore preferito. Adorava anche la musica indiana, le vecchie big bands, il free jazz e il be bop; e fu lui a spalancare la mente di Jerry e di Bob, oltre che dei batteristi Bill Kreutzmann e Mickey Hart, facendoli innamorare di Miles Davis, di John Coltrane e dei loro quartetti. «Diventò quella l’ispirazione base del nostro modo di affrontare la musica», confermò alla rivista Forbes durante un’intervista concessa nel 2022. «Quel loro attento, esuberante senso di libertà. Il modo in cui si ascoltavano l’un l’altro e in cui, senza nulla di prefissato, ciascuno di loro si metteva simultaneamente a improvvisare».

Aveva studiato composizione e la musica classica e si era messo a suonare violino e tromba, prima che Garcia nel 1965 lo ingaggiasse nei Warlocks – i progenitori dei Grateful Dead – convincendolo a imbracciare il basso elettrico facendone uno strumento solista aggiunto. Curioso, sfacciato e iconoclasta com’era, Phil non se lo fece ripetere 2 volte, inventandosi uno stile inedito («L’importante era suonare qualcosa che nessun altro aveva mai suonato prima») e originale quanto quello sviluppato dal soul brother Jack Casady nell’altro gruppo di punta della scena di San Francisco, i Jefferson Airplane. Come ogni bassista, presidiava con autorità anche il deep end, la gamma bassa di frequenze dello spettro sonoro ma il suo compito non era quello, classico, di fornire un’ancora al gruppo (ha ragione il New York Times quando dice che Lesh non teneva salda a terra la musica, ma piuttosto la sollevava in alto).

«Quando Phil è in palla, lo sono anche i Grateful Dead», era solito dire Garcia. E basta ascoltare i dischi del gruppo, ma soprattutto gli innumerevoli concerti pubblicati anche ufficialmente per rendersene conto. Era il motore supersonico che accendeva i razzi in rampa di lancio durante le cavalcate lisergiche e interstellari di Dark Star, That’s It For The Other One e St.Stephen/The Eleven; la miccia che innescava le sperimentazioni avant garde e le improvvisazioni elettroniche nella sezione dei concerti intitolata Space; il fine tessitore che intrecciava un dialogo fitto con le chitarre fra le visioni incantate di Eyes Of The World. Ma poi sapeva anche diventare un’implacabile macchina del ritmo, nel disco funk di Dancing In The Street; nelle ondivaghe medley fra Scarlet Begonias e Fire On The Mountain, o nel boogie sferragliante di Truckin’, quando i Dead decidevano che era arrivato il momento di far ballare il pubblico e di assorbire l’energia di quel suo volteggiare vorticoso; ogni volta investendo con un’onda d’urto travolgente gli spettatori che si collocavano apposta nella “Phil Zone”, l’area collocata di fronte ai suoi amplificatori.

Grateful Dead

Oggi, e a dispetto di certi dissidi che negli ultimi tempi lo avevano allontanato dagli altri reduci dopo esperienze condivise come gli Other Ones e i Furthur, Kreutzmann, Hart e Weir – membri della stessa indissolubile famiglia, della stessa chiesa laica – lo ricordano affettuosamente come un mentore, un maestro, un ispiratore e un fratello (“La nostra conversazione e interazione durerà quanto meno fino alla fine dei miei giorni ”, ha scritto Bobby in un lungo, illuminante e commovente messaggio postato sui social media ringraziando la Musa di averli fatti incontrare). Capace di trasformare in punti di forza anche le sue debolezze. Non era certo un cantante dotato e ortodosso, anche se in album come Workingman’s Dead e American Beauty con il suo registro acuto da tenore faceva da efficace contraltare a Garcia e a Weir diventando parte integrante delle armonie a più voci che caratterizzavano pezzi come Uncle John’s Band, Cumberland Blues, Ripple o Brokedown Palace. Imparando in fretta ciò che era necessario e funzionale al gruppo, come veniva spontaneo a una mente svelta, acuta e speculativa come la sua.

Solo in rarissime occasioni la sua voce fragile, stropicciata e danneggiata da anni di abusi alcolici, emergeva in primo piano: era accaduto nel 1974 in 2 suoi pezzi, Unbroken Chain e Pride Of Cucamonga (il 2° mai eseguito dal vivo)  contenuti nell’album From The Mars Hotel, ma soprattutto 4 anni prima in Box Of Rain, debutto da lead vocalist in una splendida ballata che apriva l’album American Beauty in sintonia con il sound country-folk di quel disco. Si rabbrividisce, oggi, a riascoltarne la malinconica melodia e quel testo composto da Robert Hunter ispirandosi a ciò che in quel momento straziava il cuore di Phil: l’agonia del padre assistito sul letto di morte durante le sue ultime ore terrene. La “scatola di pioggia” del titolo, spiegò Hunter, era il mondo in cui viviamo; e la canzone invitava Lesh senior, e noi tutti, a guardare fuori dalla finestra. A varcare l’uscio in cerca di un raggio di sole e di una nuova direzione su cui incamminarsi, magari in un’altra dimensione.

Phil Lesh con Jerry Garcia a San Francisco, negli anni 60

Come spesso accade con i Grateful Dead, la storia si ripete, ogni tanto gli astri si allineano generando magiche consonanze cosmiche. Proprio Box Of Rain è stata l’ultima canzone eseguita dal gruppo come bis nel corso dell’ultimo concerto, il 9 luglio 1995 al Soldier Field di Chicago. Mentre venerdì scorso i Phish di Trey Anastasio, fra i tantissimi musicisti ad essersi avvicendati al suo fianco in quell’organismo mutante e aperto che è stato nei decenni il collettivo Phil Lesh & Friends, hanno voluto aprire il loro show ad Albany con quel suo immortale testamento. Ancora una volta The Music Never Stopped, la musica dei Grateful Dead e dei loro discendenti non si è fermata. Finché continuerà a risuonare e a vibrare nello spazio, replicherà la sua magia generando fra gli esseri umani un senso di comunione, di condivisione e di unità, amava ripetere Lesh. Convinto fino alla fine dei suoi giorni, come scrisse nel suo memoir, che “l’energia liberata da questo atto di creazione musicale, da questo estatico danzare, in qualche modo rende il mondo un posto migliore ”.