Un’introduzione pop dal vago aroma esotico. Il solito pulviscolo di particelle elettroniche (complice, stavolta, Brian Eno). Il basso e la batteria dei fedelissimi Tony Levin e Manu Katché sempre in primo piano (anche il chitarrista David Rhodes è della partita, mentre fra le novità spiccano i cori di Ríoghnach Connolly dei Breath, gruppo sotto contratto con l’etichetta Real World). Una strofa tenebrosa e quasi sussurrata, seguita da un inciso arioso, aperto, orecchiabile e poi da una decisa accelerazione ritmica. Una chitarra acustica che non si prendeva la scena in questo modo dai tempi di Solsbury Hill e della seconda metà degli anni 70, suonata con una pennata vigorosa che rammenta lo stile di Pete Townshend e degli Who. E poi quella voce scolpita nell’immaginario di una generazione. Inconfondibile, integra e ancora emozionante.
Torna Peter Gabriel con Panopticom e subito la piazza elettronica di Facebook e dei social media si divide nei giudizi secondo la solita logica binaria, rozza e superficiale. Non è musica rivoluzionaria (qualcuno se la aspettava, da un artista in circolazione dalla fine degli anni 60?); rammenta (come era lecito attendersi) cose che Gabriel ha già fatto in passato (dal 1° album ad Up, ognuno può dire la sua); ma la buona notizia è che non suona datata né priva di significato. Anzi. Ancora una volta, il 1° “assaggio” (in versione remix e anche extended) da 1 album di inediti, i/o, atteso da quasi 20 anni, stimola la nostra curiosità spingendoci a prendere il tempo necessario per riflettere. Tutt’altro che scontato, per un artista mainstream, nell’era in cui tutto si fagocita a velocità supersonica con una soglia d’attenzione ai minimi termini e poca o nessuna voglia di approfondire.
Fa parte di 1 disco che come sempre, nel caso di Gabriel, si annuncia come un’opera concettuale e multimediale (il singolo è accompagnato da un’immagine realizzata dall’artista visuale anglo-canadese David Spriggs: un vortice rosso risucchiato da un buco nero che si intitola Red Gravity); un progetto che intende svelarsi gradualmente come un mosaico di cui ci viene messa a disposizione una tessera per volta, e con tempistiche precise e non casuali, in occasione di ogni ciclico manifestarsi della luna piena (da tempo le fasi lunari rappresentano un faro d’ispirazione e una fonte di suggestioni per l’artista inglese, che ha ricominciato ad affidare i suoi messaggi ai fan iscritti al suo Full Moon Club).
Sulla data di pubblicazione dell’album aleggia ancora un fitto mistero (mentre l’inizio di un tour che prevede subito 2 date in Italia, il 20 a Verona e il 21 a Milano, è programmato per maggio) e altrettanto misterioso – prima che Gabriel stesso intervenisse a spiegarne il senso con un video e con un comunicato – era il titolo scelto per la canzone: Panopticom e non Panopticon (con una m finale al posto della n). Che, dunque, fa riferimento solo in maniera obliqua al modello di architettura carceraria progettata nel XVIII secolo dal filosofo, giurista e riformatore sociale inglese Jeremy Bentham, grazie al quale un solo secondino posto al centro della sala sarebbe in grado di controllare teoricamente i movimenti di qualunque detenuto grazie a una visione panoramica di tutte le celle del penitenziario.
Peter Gabriel
© Nadav Kander
Ma invece (la desinenza finale pone l’accento sull’aspetto della comunicazione) ci introduce a un visionario progetto in corso di elaborazione e finalizzato a una gestione diffusa, trasparente e verificata dell’informazione e della conoscenza: un “globo” elettronico (e possibilmente anche fisico) di dati open source consultabile da chiunque ed espandibile all’infinito grazie agli input dei suoi utilizzatori (un principio non dissimile da quello della blockchain): «Stiamo iniziando a mettere in contatto un gruppo di persone che la pensano allo stesso modo e che potrebbero essere in grado di dare vita a questo progetto», spiega Peter, «per consentire al mondo di vedere meglio se stesso e di comprendere meglio ciò che sta realmente accadendo». Un tentativo di sostituire l’utopia alla distopia, il sogno di rimpiazzare con una “piccola sorella” (noi, esseri comuni e cittadini del mondo) il Grande Fratello orwelliano.
Potere, controllo, autorità, condizionamento, falsificazione delle informazioni, democrazia reale, ricerca della verità. Sono concetti cari a Gabriel almeno dai tempi del suo 3° o 4° album. Almeno da quando, in Biko, avvertiva i criminali sudafricani dell’apartheid che «oggi gli occhi del mondo stanno guardando». Attualissimi, inutile sottolinearlo, in epoca di media manipolati da interessi politici ed economici, di fake news incontrollate, di marketing politico, di WikiLeaks e di Julian Assange. Esplicitamente ispirato dal lavoro di organizzazioni internazionali come Forensic Architecture, Bellingcat e WITNESS (di cui lui stesso è stato cofondatore nel 1992) che nel mondo vigilano sull’operato dei governi e sul rispetto dei diritti umani, Peter incita alla presa di coscienza facendo passare il messaggio che una canzone di 5 minuti possa ancora essere utile a stimolare il pensiero e l’azione. Ci invita a prenderci cura delle sorti del Pianeta e della Natura prima che sia troppo tardi.
Ma non è Greta Thunberg o Assange. Peter Gabriel resta un artista e rimette finalmente mano ai suoi arnesi del mestiere, i materiali e le qualità per cui ancora in tanti (in Italia più che altrove) lo amano: la sua voce empatica, calda e compassionevole; la sua musica in cui come sempre nulla è mai come appare a prima vista, ricca di stratificazioni sonore che a ogni ascolto rivelano qualcosa di nuovo. Intanto ci invita a rimettere tutto in discussione, a ribaltare le nostre prospettive. Chissà: almeno una fetta del suo pubblico boomer si sentirà spinta a riflettere, a leggere, a informarsi, persino a intervenire. Vi pare poco, nel pop contemporaneo?