Rieccolo, rieccomi, rieccoci. In questo terribile 2020 una notizia che a noi, amanti della buona musica, fa molto piacere: dopo 43 anni di carriera Paul Weller ci stupisce ancora. Andando sul personale, devo confessarvi che aspettavo On Sunset da 30 anni esatti. Da welleriano di stretta osservanza, sin dal primo album (The Jam del 1977) i miei rapporti con il Mod Father si intensificati con la cosiddetta “svolta soul“: mi riferisco ad album come Sound Effects (1980) e The Gift (1982) in cui Weller inserisce nel trio con Bruce Foxton al basso e Rick Buckler alla batteria una solida sezione fiati dichiarando al mondo devozione assoluta alla black music. È allora che ho conosciuto, grazie a questi 2 dischi e alle relative interviste, grandi artisti che hanno deliziato e tuttora deliziano il mio rapporto con la musica: Stevie Wonder, Marvin Gaye, Gil-Scott Heron, Isaac Hayes e qui mi fermo, la lista sarebbe infinita.

Paul Weller

Perciò Weller ha guadagnato parecchi punti nella mia considerazione. E oltre a essere diventato il mio artista preferito, si è rivelato il mio consigliere musicale: una sorta di fratello maggiore che ne sa di più, il mio Favourite Shop (parafrasando il titolo del 2° album degli Style Council). E la pacchia è proseguita proprio per merito di questi ultimi con Introducing (1983), Café Bleu (1984), fino a Modernism: A New Decade (1988). Io e lui, insomma, ci siamo presi un’intera decade di sbornia black. Nel 1992, 1° album solista semplicemente intitolato Paul Weller, il soul è ancora ben rappresentato; dopodichè il nostro eroe è letteralmente salito su un ottovolante creativo che è durato fino a oggi regalandoci stili inusuali, inversioni a u e scelte inaspettate; anche se, va sottolineato, ci ha riservato una carriera musicale che oggettivamente non ha avuto una caduta che sia una, condita da tournée indimenticabili.

Si va dal folk blues di Wild Wood (1993), all’Inghilterra elettrica di Stanley Road (1995); dal maestoso, orchestrale Heliocentric (2000), a tutta una serie di album da “buona la prima”. Dei quasi live incisi e portati in tour nel giro di pochi giorni, dove l’energia e la velocità l’hanno fatta da padrone: Heavy Soul (1997), Illumination (2002), As Is Now (2005), la tavolozza multicolor di 22 Dreams (2008), quella tardobowianoberlinese di Wake Up The Nation (2010), Sonick Kicks (2012), l’essenzialmente british Saturn Pattern (2015), l’americano A Kind Of Revolution (2017), l’essenziale e spartano folk di True Meaning (2018).

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E adesso c’è On Sunset, il meraviglioso album che nonostante tutto mi è mancato in questi anni. Il disco del ritorno alla soul music che può ingannare, apparire godibile (e lo è), sembrare adatto da ascoltare passeggiando al tramonto sul mare o viaggiando in auto verso le agognate vacanze, perfetto come sottofondo in una serata fra amici… In realtà è molto di più. Superlativamente prodotto, esatto contrario dei one shot anni 10, On Sunset cresce a ogni ascolto con le sue 10 canzoni che si tengono per mano offrendoci quasi un concept album, un sound preciso e definito dall’inizio alla fine. Si va da pezzi più tradizionali come Baptiste o Equanimity (impreziosito dal violino di Jim Lea degli Slade), allo psychedelic soul con finale strumentale di More arricchito dalla voce di Julie Gross (Less Superhomard); da Village, davvero lounge tardo Style Council (e che seduto alla tastiera ci sia Mick Talbot la dice lunga), fino alla maestosa Title Track di oltre 6 minuti in cui il suono struggente della Paraorchestra spicca su tutto mentre Weller interpreta (parere personale) la più bella canzone da quando è solista.

Vi consiglio infine la Deluxe Edition arricchita da 3 inediti (4th Dimension, Plougman, I’ll Think On Something), più la versione strumentale di Baptiste e una rilettura unplugged di On Sunset per voce e orchestra. E sono brividi veri, dal momento che Paul Weller è qui. E visti i tempi, fidatevi, non è poco.