Irrequieto, iperattivo, incalzato dal tempo che a 63 anni comincia a scorrere inesorabile, Paul Weller – uno che non riesce a stare fermo 5 minuti su una sedia neanche se lo legate – ha reagito allo stop forzato imposto dalla pandemìa nell’unico modo che conosceva: stando a casa con la famiglia ma soprattutto scrivendo, cantando, suonando e registrando nuove canzoni, scambiandosi file audio a distanza con i membri della sua band per poi convocarli a completare il lavoro al Black Barn, il suo home studio di campagna nel Surrey.
Come tanti e più di altri, ha sofferto e soffre la clausura. Per lui, da quando era ancora un teenager, fare musica significa girare il mondo, incontrare gente, suonare con la band. Altro che restarsene chiuso tra 4 pareti davanti a un maledetto computer. Impossibilitato a promuovere dal vivo On Sunset, se n’è uscito così con 1 nuovo album il cui titolo fa supporre che abbia già altro in cantiere: Fat Pop (Volume 1). Che arriva presto, troppo presto (a meno di 1 anno di distanza dal predecessore) e non riserva sorprese. Il mood non è troppo dissimile, anche se la produzione è meno sofisticata, in questa collezione che abbraccia tutto lo scibile welleriano degli anni 2000 e non solo. Le esplorazioni sonore sono meno avventurose, ma la premessa ancora più ambiziosa: raccogliere un mazzo di potenziali hit, di singoli virtuali che l’uomo di Woking avrebbe voluto fare uscire 1 alla volta, come si faceva ai vecchi tempi, ne avesse avuto l’opportunità.
Paul Weller
«Sono tutte canzoni pop, in vecchia valuta», ha spiegato Weller sul mensile Mojo che gli ha dedicato l’immancabile copertina ingaggiandolo anche come editore una tantum. Brevi, secche, filanti, orecchiabili. Viene spontaneo fare il solito giochino e immaginare che grande album sarebbe venuto fuori mettendo insieme il meglio di On Sunset con quello di Fat Pop, ma è un esercizio inutile e pleonastico: sono in qualche modo fratelli, ci sono delle somiglianze, ma sono figli di epoche, momenti, stati d’animo e situazioni diverse.
Paul ci ha abituati ad aprire i suoi album con i brani più taglienti e aggressivi del menù: lo fa anche stavolta con Cosmic Fringes, un po’ Stooges, un po’ glam e un po’ krautrock, chitarre sature, synth scoppiettanti e ritmi motorik, ritratto beffardo di un leone da tastiera che ruggisce davanti allo schermo ma si sente perso quando esula dal tragitto casalingo fra pc, frigorifero e letto. È figlia di Sonic Kicks e di Wake Up The Nation, nonché del luddismo di quest’ultimo; un graffio sonoro doppiato dalla successiva True in cui un bridge onirico, sognante e jazzato è preceduto da uno spiccio riff chitarristico quasi garage e da un dialogo serrato fra la voce di Weller e quella strascicata e scura di Lia Metcalfe, giovane frontwoman dei Mysterines di Liverpool che si unisce a una lunga e rivelatrice lista di ospiti nei suoi dischi.
Paul ama da sempre il vintage come la novità, resta un modernista nell’anima (che dedica il disco alla memoria di Eugene Manzi, mod duro e puro, ex discografico e soprattutto proprietario per tanti anni di un leggendario negozio di dischi nel quartiere londinese di Swiss Cottage) e si apre sempre più alle collaborazioni (6 brani su 12 portano altre firme accanto alla sua) anche se ama sempre circondarsi degli amici fidati (ci sono tutti, e sempre più intercambiabili: l’immancabile “braccio destro” Steve Cradock, Andy Crofts e gli altri componenti della attuale live band mentre il batterista, chitarrista e cantante Steve Pilgrim resta in disparte per dedicarsi al suo album solista di prossima uscita prodotto dal “padrino” in persona).
Il resto del cast lo assembla tenendo le orecchie aperte sull’attualità e guardando alla storia: i fan che ricordano gli inizi della carriera solista di Weller, saranno lieti di dare il bentornato al sassofonista e flautista Jacko Peake, mentre Andy Fairweather Low, ex collaboratore di Roger Waters, di Eric Clapton e di Bill Wyman, nonché voce solista degli Amen Corner di If Paradise Is Half As Nice (la cover in lingua inglese di Il paradiso di Mogol e Donida) è un nome ben noto agli amanti del pop anni 60 e del classic rock.
Sono (anche) queste scelte a riportare il disco su binari più classici dopo la title track che è il pezzo più enigmatico e inatteso della collezione: uno svagato e impalpabile electro funk ispirato esplicitamente ai deep grooves che DJ Muggs confezionava ai tempi dei Cypress Hill. Molto più familiare è il tema della canzone: un’ode al potere aggregante, rigeneratore e salvifico della musica che rappresenta una costante dell’universo poetico attuale di Weller quanto lo sono una certa inclinazione al panteismo e alla contemplazione della natura che certo non appartenevano al ragazzino arrabbiato dei Jam, da una decina d’anni “ripulito” e rigorosamente astemio con l’unico vizio incrollabile di quelle tante sigarette che donano un piacevole timbro roco alla sua voce.
Sopravvivono in lui, del passato, anche quei moti di indignazione civile e politica che lo spingono stavolta a concepire un brano ispirato dal movimento Black Lives Matter e all’uccisione di George Floyd da parte della polizia americana: un clamoroso pezzo in stile blaxploitation che si intitola That Pleasure e a cui Curtis Mayfield, Bobby Womack e Gil Scott-Heron probabilmente sorridono benevolmente da lassù.
La matrice black, tornata di prepotenza in On Sunset, è presente in dosi massicce anche in Fat Pop con un suono analogico in cui si infiltrano una volta ancora le sottili trame elettroniche cucite dal produttore Jan Stan Kybert, altra presenza fissa al suo fianco da tanti anni: il flauto, i sax, i sapori gospel, il ritmo New Orleans e i coretti sho-do-be-do della trascinante Testify non potrebbero essere più anni 70 di così; mentre un arrangiamento space soul accompagna le dolci malinconìe di Glad Times.
Già, perché il mondo di Weller e di Fat Pop non è tutto dipinto di rosa, di peana alla musica e alla natura: oltre alle violenze e alle brutture del mondo ci sono le inevitabili crisi matrimoniali; e Paul racconta di avere preso spunto da un grosso litigio con la giovane moglie per sfogare la sua frustrazione e i dubbi su sé stesso in un pezzo sincero e brutale come Failed, giocato su una base scattante e incalzante di rock e di chitarre affilate. I legami familiari tornano anche in Shades Of Blue, ma sotto sembianze concrete: la figlia Leah ha collaborato con lui alla scrittura e lo affianca nel canto in quella che lui stesso definisce una sorta di «dramma di periferia», immaginaria colonna sonora a una commedia che mischia Kinks, Burt Bacharach e Lee Hazlewood.
Non è mai stato uno che tende a celare i suoi idoli e le sue influenze, Weller. E se nel recente passato aveva intitolato un pezzo a David Bowie, qui ne dedica uno a Iggy Pop: a rimescolare le carte ci pensa il fatto che la dinamica Moving Canvas è una sorta di rock blues anni 70 in cui è difficile riconoscere lo stile dell’Iguana. Bastano pochi strumenti a disegnarla, mentre altrove archi (arrangiati e diretti da un’altra collaboratrice già rodata, Hannah Peel) e fiati gli servono ad amplificare le sue qualità inossidabili di grande melodista capace di arrivare al punto con 1 strofa e 1 ritornello: sono i momenti delle chitarre acustiche e dei battimani solari di Cobweb/Connections, di soavi delicatezze che in For Better Times suonano come un sincero incoraggiamento a chi si trova in un tunnel apparentemente senza uscita e soprattutto di una luminosa e pastorale ballata orchestrale intitolata Still Glides The Stream, che chiude il disco in gloria e in cui riascoltiamo il Weller che abbiamo imparato a conoscere almeno dai tempi di 22 Dreams.
Comunicative, concise e senza troppi fronzoli, sono tutte canzoni che sembrano perfette per essere suonate dal vivo, dove paradossalmente – ma non troppo – potrebbero risultare ancora più efficaci. Lo dimostra già la versione su triplo Cd che oltre a 1 bonus disc con 6 outtakes prevalentemente semiacustiche riproduce il Live From Mid-Sömmer Musik registrato dal vivo in studio e diffuso in streaming in rete l’estate scorsa: lì le anticipazioni del nuovo disco, come le versioni live dei pezzi di On Sunset, sembrano respirare e pulsare di più. Ma va bene così, Paul. Ora però fermati un attimo e ricomincia – appena potrai – a farti rivedere in giro.