L’album originale più 3 outtakes. Il celebre BBC “In Concert” del 23 febbraio 1971 più volte circolato sotto forma di bootleg e tuttora visibile su YouTube riversato su supporti audio e video rimasterizzati. 1 documentario inedito di 2 ore sul making of del disco proiettato anche nelle sale cinematografiche (ma non in Italia). Anche se in ritardo di diversi mesi, Reprise e Warner Music non potevano mancare le celebrazioni del cinquantennale di Harvest. Il disco più venduto del 1972 negli Stati Uniti. L’unico N° 1 in classifica di Neil Young. Un capolavoro. Ma anche, come ha ricordato Jaan Uhelskzi su Classic Rock tempo fa, il disco di Neil Young che piace a quelli che non amano Neil Young. Un po’ quel che succede con i Pink Floyd di The Dark Side Of The Moon, con lo Springsteen di Born In The U.S.A., con il Bowie di Let’s Dance. Successi mainstream e plebiscitari che rubano la scena ai veri fan: quelli che seguono gli artisti preferiti passo dopo passo senza preoccuparsi delle charts e delle playlist radiofoniche.
Come tante cose nella vita e nella carriera di Young, Harvest nacque per una intuizione del momento, per circostanze casuali e senza calcoli preventivi. Neil era stato a Nashville per partecipare al Johnny Cash Show televisivo e lì conobbe il produttore Elliot Mazer. Soffriva di terribili dolori alla schiena che gli impedivano di imbracciare a lungo una pesante chitarra elettrica e per questo preferì rivolgersi all’acustica. Il roadie Guillermo Giachetti lo aveva portato al cinema a vedere Diary Of A Mad Housewife (Diario di una casalinga inquieta) e s’era invaghito dell’attrice protagonista, Carrie Snodgress, che poco dopo conobbe facendone la musa ispiratrice di alcune nuove, ispirate canzoni. A cominciare dall’ambigua Heart Of Gold, la mega hit che quell’anno sentivi ovunque in America appena accendevi la radio; e che i ragazzi di tutto il mondo provavano a suonare alla chitarra.
“Questa canzone mi collocò nel middle of the road, al centro della strada. Viaggiare lì in mezzo divenne presto una noia, e così mi diressi verso il fosso. Un percorso più accidentato, ma nel quale incontrai gente più interessante”, spiegò lui stesso nelle note di copertina dell’antologia Decade, 5 anni dopo, prendendo le distanze dal brano con cui tutti lo identificavano e che fece persino incazzare Bob Dylan («Ogni volta che la ascoltavo alla radio provavo un moto d’odio. Mi dicevo: merda, questo sono io. E se suona come me, dovrebbe essere roba mia»).
Armonica, acustica, pedal steel, una ritmica vivace ma essenziale, una melodia immediata e indimenticabile, i cori di James Taylor e Linda Ronstadt: sotto stress, quest’ultima, perché abituata a rifinire le sue parti vocali fino allo sfinimento; una “pittrice a olio” che amava curare ogni dettaglio mentre l’intuitivo, inquieto Neil prendeva le canzoni per la gola senza stare a pensarci troppo (2 sole take, in questo caso). A sorreggere l’impalcatura strumentale c’erano gli Stray Gators, un gruppo assemblato in fretta e furia da Mazer con i migliori session men nashvilliani disponibili in quel momento: Ben Keith alla pedal steel, Tim Drummond al basso, Kenny Buttrey alla batteria, inizialmente perplesso dalle istruzioni rigorose di Young e costretto a suonare sempre il minimo indispensabile poiché, gli ripeteva il canadese, «meno si fa meglio è» (“In sostanza ogni parte di batteria che ho suonato con Neil è roba sua, non mia”, raccontò a Jimmy McDonough, il biografo di Young).
«Harvest mi piacque perché tutto accadde in fretta, come una cosa fortuita», raccontò in seguito l’interessato. «Non cercavo il Nashville sound, quelli erano i musicisti che si trovavano lì in quel momento. Entravano in studio, facevano la loro parte e se ne andavano, è così che si fa a Nashville. Non c’erano preconcetti. Elliot Mazer era al posto giusto al momento giusto».
Con Harvest e con Heart Of Gold Young sdoganava il country rock presso il grande pubblico, anche se non era stato lui a inventarlo (4 anni prima, per dire, i Byrds con Gram Parsons avevano dato alle stampe Sweetheart Of The Rodeo). Tanti altri pezzi nuovi erano della stessa stoffa, semplice e robusta. Out On The Weekend che apriva il disco con un’armonica dolente quanto la voce, il sound asciutto della sezione ritmica e la pedal steel di Keith che, scrisse qualcuno, evocava cieli tersi e infiniti mentre il testo vagheggiava una fuga dalla città e dai tormenti amorosi a bordo di un pick-up. La title track, un dolce valzer country con John Harris al pianoforte e Buttrey a percuotere con una sola mano la grancassa e il rullante, che sciorinava riflessioni suggerite dalla fresca storia d’amore con Carrie. Are You Ready For The Country, con le voci di David Crosby e Graham Nash e la slide di Jack Nitzsche, già braccio destro di Phil Spector, futuro amante della Snodgress e qualche anno dopo premiato autore della colonna sonora di Qualcuno volò sul nido del cuculo. E soprattutto Old Man, l’altro super classico con Ronstadt e Taylor di nuovo chiamati a intrecciare armonie vocali (James vi suonava anche un banjo a 6 corde), quella melodia al tempo stesso gioiosa e malinconica («Anche quando mi sento felice suono come se non lo fossi»), e quelle parole che il padre di Neil, affermato giornalista sportivo, pensava fossero un messaggio d’empatia e una dedica affettuosa rivolta a lui: erano indirizzate invece a Louis Avila, custode del Broken Arrow (il ranch di 1.500 acri sulle colline a sud di San Francisco che Neil s’era comprato con i soldi guadagnati grazie ai dischi precedenti e in cui pascolavano mucche e bisonti).
Rispondevano tutte al suo nuovo diktat, rigore e minimalismo, anche se poi lo stesso Young non mancava di contraddirsi. Per esempio appesantendo forse inutilmente un paio di pezzi con gli archi e gli ottoni, i timpani e le arpe della London Symphony Orchestra registrata nel febbraio del 1971 alla Barking Town Hall di Londra. Ma se There’s A World resta la “cenerentola” di Harvest, subito dimenticata dallo stesso Neil e troppo malevolmente liquidata da Rolling Stone come “un cheeseburger ricoperto di cioccolato”, A Man Needs A Maid resta uno dei suoi brani più amati (soprattutto nella versione piano e voce proposta dal vivo, anche negli studi BBC) e discussi (Young ebbe il suo da fare nel difendersi dalle femministe che non avevano apprezzato versi come “pensavo di procurarmi una domestica […] giusto qualcuno che mi tenga la casa pulita, mi prepari i pasti e poi se ne vada”). Lì la relazione sentimentale con la Snodgress, iniziata in una camera d’albergo al Chateau Marmont di Los Angeles in una nuvola di fumo Panama Red e suggellata quello stesso anno dalla nascita di un figlio affetto da paralisi cerebrale, veniva esposta all’occhio del pubblico (“stavo guardando un film con un amico/mi innamorai dell’attrice/recitava una parte che ero in grado di comprendere”) contravvenendo a uno stile di scrittura che fino a quel momento era sempre stato molto più elusivo e molto meno autobiografico; e che stavolta affrontava a viso aperto anche i danni irreparabili provocati dall’ago della siringa e dall’eroina: in The Needle And The Damage Done, accorata e pungente, bastavano la voce e la chitarra di Neil registrati dal vivo il 30 gennaio del 1971 alla Royce Hall presso la UCLA di Los Angeles, a ricordare con rassegnata amarezza che “ogni tossico è come un sole che tramonta”.
Allo stesso modo, al sound acustico e al tono gentile di gran parte del disco veniva meno con Alabama e con Words (Between The Lines Of Age): elettrici e brucianti, quei 2 pezzi diventavano l’anello di congiunzione con i dischi precedenti, con Everybody Knows This Is Nowhere e con After The Gold Rush ma anche con Déjà Vu (e non era casuale la presenza incrociata di Crosby, Nash e Stephen Stills). Come la sorella maggiore Southern Man, la prima era un’altra canzone di protesta antirazzista che scatenò polemiche e reazioni nel Sud spingendo i Lynyrd Skynyrd a rispondere qualche anno dopo con Sweet Home Alabama (nell’autobiografia Waging Heavy Peace, Young fece ammenda definendo le parole del testo “accusatorie e paternalistiche“); mentre nella seconda, con una sezione a tempo dispari e uno di quei suoi tipici assoli aspri e leggermente dissonanti, era come se a spalleggiarlo ci fossero i Crazy Horse (nella versione inclusa nella colonna sonora di Journey Through The Past, qualche mese dopo, i suoi 6 minuti e 40 secondi di durata sarebbero saliti a quasi 16).
Sembrava quasi un segnale di quel che sarebbe accaduto di lì a poco, nel periodo più buio e più prolifico del musicista, deciso a strapparsi di dosso l’etichetta scomoda di rock star condannata a inseguire il successo, in piena crisi esistenziale e sentimentale (lui e Carrie si lasciarono nel 1974), straziato dalla perdita di cari amici (il chitarrista dei Crazy Horse Danny Whitten e il roadie Bruce Berry, vittime di overdose a pochi mesi di distanza) e pronto a immergersi nella disperazione catartica della sua famosa Ditch Trilogy, la “trilogia del fosso” composta da Time Fades Away, On The Beach e Tonight’s The Night: i dischi che piacciono a quelli che amano Neil Young.