Di una nuova biografia (l’ennesima) di David Bowie non se ne sente davvero il bisogno. E questa, intitolata My David Bowie (Massimo Soncini Editore, 184 pagine, € 24), non è una biografia e neppure un’analisi storica delle sue opere. È un racconto di suoni, immagini e sentimenti. È la storia di un rapporto speciale tra la rockstar e il giornalista/fan. Questi 2 termini vanno tenuti insieme: impossibile separarli, come sarebbe impossibile tenere separato il rapporto professionale da quello di stima e affetto che ha legato Stefano Bianchi a David Bowie lungo i 15 anni di saltuaria frequentazione (dal 1987 al 2002).
Edo Bertoglio, Bowie at Glen O’Brien’s Tv Party, 1979
Conosco fin troppo bene e da troppo tempo Stefano per non sentirmi in questa occasione un po’ in imbarazzo: anzitutto perché, appartenendo a un’altra generazione (quella dei Bob Dylan e dei Leonard Cohen) sono stato troppo a lungo piuttosto sospettoso riguardo alla sovrabbondanza di trasformismi e mascherature; secondariamente, perché riconosco di apprezzare il suo lavoro al di là di quanto avessi potuto prevedere. Lo conosco così bene nella sua ambivalente passione per la musica e per le arti figurative che non avrei dovuto sorprendermi per la qualità della parte visiva che arricchisce questo volume: ben 14 artisti hanno illustrato con altrettanti ritratti di Bowie le pagine di questo libro dalla veste grafica preziosa, mentre la breve introduzione di Ivan Cattaneo (altra personalità legata a questo mondo dal duplice interesse per suoni e immagini) mette in scena un ricordo di Bowie con tutta l’ironia e la sensibilità di cui è capace; e lo scritto del giornalista e critico musicale Paolo Bertazzoni disquisisce del “Bowie di tutti, talvolta ” e del “Bowie di alcuni, per sempre “.
Dopodichè viene il lavoro dell’autore, in gran parte pubblicato su diverse testate (la maggioranza su Tutto Musica & Spettacolo e sul Buscadero): il toccante saluto iniziale “Ciao David”, la sequenza delle 5 interviste esclusive (dal 1991 al 1999), le conferenze stampa, gli incontri altrettanto esclusivi con il produttore Tony Visconti (il più assiduo, nella discografia bowieana), il pianista Mike Garson, il chitarrista Reeves Gabrels, il batterista Hunt Sales, il sassofonista Donny McCaslin e la cantante Cherry Vanilla, le recensioni discografiche, fino agli ultimi articoli per CoolMag.
Gianluca Marini, “Heroes”, 2022
I giornalisti timidi, come gli attori che hanno curato la loro timidezza sul palcoscenico, mi sono sempre piaciuti: partono senza nascondere le loro emozioni, poi passo dopo passo scavano in profondità. E Stefano è indubbiamente un timido che sa conquistare la confidenza dell’intervistato. D’altronde, David Bowie non era senza dubbio una preda facile… Non tutte le sue parole erano illuminanti: c’erano le maschere del momento e anche la banale necessità di promuovere l’ultima produzione. Ma si potevano conquistare anche frasi più confidenziali, quelle dove lui si apriva e cercava di confessare i suoi innamoramenti, i suoi incubi e il suo bisogno di continuare a cercare. A volte descriveva allucinazioni terrificanti o gravi errori di cui si era pentito; a volte diceva di sentire il dovere di passare in rassegna il suo passato e le occasioni perdute; a volte progettava di fare tabula rasa per poi ripartire verso il futuro.
In un’intervista cita Joan Halifax, esperta di buddismo zen: “La religione è per chi ha paura dell’inferno, la spiritualità per chi c’è già stato ”. E certo lui all’inferno ci aveva fatto parecchi viaggi. A David non dispiaceva sfoggiare i molti interessi culturali: bazzicava le gallerie d’arte, ma anche la musica minimalista di Philip Glass; assorbiva voracemente gli insegnamenti del grande attore-mimo Lindsay Kemp, ma affrontava anche la lettura di ardui testi di filosofia. La sua, comunque, non è mai stata esibizione mondana ma sincera, inarrestabile curiosità. L’impressione che si ottiene da queste interviste è quella di una persona che non è poi così distante, quasi un amico che si confida.
Denise Esposito, “David Bowie”, 2015
Tuttavia la parte di analisi più strettamente musicale si trova nelle recensioni, dove Bianchi parla ai suoi simili (i fruitori e i fan dell’intero lavoro dell’artista londinese): recupera anche la prima produzione discografica, riedita dalla Rykodisc, e analizza con cura, di brano in brano, le tappe di una carriera e le infinite trasformazioni del suo eroe. È qui che il critico ci regala una delle sue frasi più illuminanti: “Il vizio preferito di David Bowie? È il harakiri ”. Quante volte questo camaleonte, mai stanco di sorprendere, ha ucciso un’identità musicale e ricominciato da capo? E sarà sempre così, fino a Blackstar, il suo testamento.
Il racconto si chiude ovviamente con la scena dell’arrivo in casa Bianchi della notizia della morte di Bowie. L’elaborazione del lutto è stata lunga, ma ha portato a questo straordinario risultato.