Nato a Catania da genitori ferraresi nel 1950 («Papà era un funzionario dello Stato, trasferito per un paio d’anni in Sicilia – la mia permanenza a Catania è durata solo 28 giorni»), Michele Bovi è giornalista e autore di lungo corso. Alla RAI è stato caporedattore centrale del Tg2, dirigente di Raidue e capostruttura per l’intrattenimento di Raiuno. Ha ideato programmi TV di successo come Eventi Pop, I ’60 a colori, TG2 Mistrà, DaDaDa, TecheTecheTe’, Segreti Pop – tutti tranquillamente reperibili online. Poi vi è il reparto libri–inchiesta: Anche Mozart copiava (2004), Da Carosone a Cosa Nostra (2007), Cinebox vs Scopitone (2014), Note segrete (2017) e Ladri di Canzoni (2019) – cui aggiungere Tg2 Mistrà (2005), raccolta delle poesie a soggetto di Pasquale Panella confezionate per l’omonimo programma tivù. Letta o ascoltata l’opera di Bovi, risulta molto apprezzabile il suo modo di esprimersi e il taglio, generalmente, d’inchiesta del suo lavoro. Uno stile comprensibile a tutti e senza i soliti intellettualismi né l’egocentrismo di molti dei cosiddetti “giornalisti musicali” italiani – e, d’altra parte, sempre dettagliato in quello che racconta e capace di svelare aneddoti e fatti spesso inediti o dimenticati. Sembra proprio che la “missione” sia veramente quella di informare. Per questo e tanto altro è stato un piacere intervistarlo…
Partiamo dalle tue radici lavorative: chi sono i maestri del giornalismo riconosciuti da Michele Bovi?
«Il mio primo maestro fu il conte Alberto Rognoni, campione di giornalismo e di grafica d’impaginazione, penna luna-park del Guerin Sportivo quand’era il settimanale che condizionava la politica del calcio italiano. Rognoni era di Cesena, anzi era stato tra i fondatori della società calcistica Cesena: un romagnolo che inseguiva con passione, slancio ed esilarante ironia traguardi proibiti come l’autonomia della Regione Romagna con conseguente abolizione del “ripugnante trattino” che la rende succube dell’Emilia. Io sono stato direttore del Corriere di Romagna, ligio agli spassosi comandamenti del conte Rognoni. Poi passai alla guida del primo telegiornale della Repubblica di San Marino: il governo del Titano mi impose la consulenza di Ugo Zatterin, direttore del Tg2. Gli adulti ricordano Zatterin più per l’imitazione che faceva di lui Alighiero Noschese che per le doti di giornalista. Io non ho più conosciuto un direttore di telegiornale con il suo intuito e la sua cultura. Zatterin mi portò al Tg2 dove legai con un altro eccellente professionista, il vicedirettore Franco Alfano, inarrivabile campione della cronaca».
Per come ti conosco io, mi dai l’idea di essere una persona molto estroversa ed entusiasta. Nel leggerti, ma anche nell’ascoltarti, colgo molto spesso un certo tono giocoso. Trovo molto interessante che una persona che mi dà quell’impressione, poi sia interessato al lato oscuro e agli intrighi che riguardano la musica, come provano i tuoi libri e anche diversi degli Speciali che hai fatto per il TG2. È un paradosso o semplicemente sono cose che possono convivere in armonia?
«Anche se da ragazzo ero stato un decente sassofonista, in tanti anni di carta stampata e di televisione mi sono occupato di tutto tranne che di musica. Soltanto alla fine degli anni 90 il direttore Clemente Mimun mi invitò a creare degli speciali per il Tg2 con temi paralleli o inediti riguardo al panorama delle settenote. Nacquero così i dossier Canzoni segrete, che scovavano brani mai pubblicati, denunciavano plagi, svelavano le origini nell’industria militare del videoclip. Mentre realizzavo quei dossier rimanevo comunque il caporedattore del Tg2 Salute, o di altro: ovvero, non mi è stato mai chiesto di confezionare la recensione per un disco».
Ricordo come se fosse ieri lo Speciale con protagonista Gene Pitney, che intervistasti nella sua casa in Connecticut. Raccontaci qualcosa di più rispetto a quello che abbiamo visto in TV…
«Era la storia della RCA Italiana che stava chiudendo lo storico stabilimento romano di via Tiburtina. Il vertice dell’azienda mi consentì l’accesso agli archivi riservati che custodivano i nastrini con le registrazioni rimaste inedite dei vari Lucio Battisti, Claudio Baglioni, Lucio Dalla, Renato Zero, Riccardo Cocciante, Francesco De Gregori, Rita Pavone, Patty Pravo, Gianni Morandi, Gino Paoli. Quindi un programma singolare per il quale era d’obbligo un conduttore inconsueto, un’icona del periodo d’oro del disco: scelsi il dolce Gene Pitney, uno degli americani che più avevano frequentato la nostra televisione negli anni 60. Lo raggiunsi nella sua abitazione di Hartford, nel Connecticut. Terminato il lavoro mi fece visitare il salone cantinetta della casa: c’era il biliardo e alle pareti erano appesi i manifesti di Little Tony, Dino e molti altri suoi colleghi italiani. Mi salutò dicendo: “Il vostro Paese è stato la mia America, la mia seconda patria, dove mi sono sposato e ho trascorso i periodi più entusiasmanti della mia vita”».
Michele Bovi con Sergio Endrigo e Pasquale Panella
Pitney a parte, nei tuoi Speciali hai intervistato una pletora di artisti del mondo musicale. Chi sono quelli che ti hanno sorpreso di più e perché?
«Ho voluto bene a Sergio Endrigo, che resta il mio artista italiano preferito. Nei suoi ultimi anni di vita giocavamo a briscola-tressette quasi ogni fine settimana nella mia casa di Morlupo, vicino a Roma. Gli altri 2 fissi al tavolo delle carte erano Pasquale Panella e un comune amico chitarrista, Gianlorenzo Ottavianelli. Endrigo era di gran lunga il più bravo e lo facevamo irritare sempre perché l’occasionale compagno, distratto o incapace, lo trascinava nella sconfitta. La posta era di 1 euro a testa. Endrigo a parte, l’artista che mi ha sorpreso di più è stato Neil Sedaka. Andai a intervistarlo a New York per un altro dossier del Tg2 dedicato agli Americani a Roma. All’epoca mia figlia lavorava alle Nazioni Unite e abitava a 300 metri da casa sua. 2 passi e lo raggiunsi con la troupe. Sedaka è l’anti-divo: semplicità, disponibilità e umiltà sensazionali. Mi raccontò che da ragazzo era bruttino, con gli occhialetti e i dentoni alla Bugs Bunny e che la RCA lo trasformò in una di quelle “pretty faces” canore che facevano furore tra le ragazzine. Mi disse che alla Bussola, in Versilia, doveva cantare la sera successiva alla splendida esibizione di Mina. Ma lui era senza voce, per colpa di una bronchite. Fu una figura terribile. Scappò via inseguito da avventori inferociti che gli tirarono persino dei barattoli di pomodori. Finita l’intervista mi fece: “Non vorrai mica andar via senza prima sentirmi cantare?!“. Si mise al pianoforte – magistrale nella sua impostazione classica estesa al pop – e partì con un brano nuovo, poi uno di 10 anni prima, per chiudere con La notte è fatta per amare, suo successo italiano del 1964. Sull’uscio mi raccomandò di portare i suoi saluti ai vecchi amici della RCA Franco Migliacci ed Ettore Zeppegno».
Il giornalista intervista Neil Sedaka
In video e nei libri hai spesso affrontato temi come Adriano Celentano e Lucio Battisti. Giornalisticamente parlando, 2 vere “gatte da pelare”, visti gli entourage di uno e dell’altro, sebbene in modo diverso notoriamente chiusi a riccio e iper protettivi della privacy. Eppure Bovi ne è uscito “vincitore”, sia in TV sia nei libri con materiale di prim’ordine. A quanto ne so, nemmeno mezza riga di diffida da parte di Claudia Mori o di Grazia Letizia Veronese. Come hai fatto ad affrontare 2 mostri sacri del genere senza scadere né nel banale né nel gossip?
«Sono stato fortunato e privilegiato nei rapporti con questi 2 artisti. Le mogli sono persone perbene, estremamente attente allo sfruttamento non autorizzato né gradito dell’immagine dei mariti. Lucio Battisti detestava i giornalisti, alcuni dei quali indispettiti per il rifiuto di interviste ricambiavano in pieno il sentimento. Ma non potevano attaccarlo: i lettori, infervorati estimatori di Lucio, li avrebbero fatti a pezzi. L’occasione di consumare la vendetta è arrivata per costoro con la sua morte: bersaglio facile, a causa del suo carattere ostico, è diventata la moglie. Mogol, che non l’ha mai amata – come lei non ha mai amato Mogol – ha dato una mano».
A proposito di Battisti, penso di aver colto una certa tua “equi-vicinanza” sia con Pasquale Panella, con il quale anni fa hai fatto una bellissima rubrica per il TG2 poi divenuta anche libro, sia con Mogol. Domanda-gioco sull’impossibile: per come li conosci, i 2 potrebbero collaborare? Un certo “non sense” di Panella, per esempio, io lo riscontro anche in certe cose di Mogol scritte per Battisti, tipo negli album Anima latina e Una giornata uggiosa. E se dovessero farlo, a chi fra gli artisti italiani in attività il testo partorito dai 2 dovrebbe finire in mano, ai tuoi occhi?
«Pasquale Panella e io abbiamo lavorato assieme per 10 anni, realizzando progetti di ogni tipo, con entusiasmo. Lui e Mogol sono 2 bravi autori, con caratteristiche professionali e temperamenti molto diversi. Escludo possano incontrarsi artisticamente».
Maurizio Costanzo: perdona il gioco di parole, una consolidata costante dei tuoi libri è la prefazione dal famoso giornalista-conduttore. Nome noto da strillare in copertina a parte, cosa vi lega? A naso, credo che vi conosciate da parecchio tempo…
«Ha insegnato a tutti come realizzare interviste televisive. Dopo anni di esilio Mediaset sono stato io a riportarlo alla RAI. Gli sono affezionato».
So che hai avuto un intenso rapporto d’amicizia con Little Tony. Regalaci un tuo personale ricordo…
«Qualcuno scrisse che Little Tony era diventato cittadino della Repubblica di San Marino per non pagare le tasse e non fare il militare. Idiozie. La famiglia Ciacci – Antonio Ciacci era il suo nome allo stato civile – è sammarinese da oltre 7 generazioni. I genitori si trasferirono a Tivoli, vicino a Roma, per lavoro. E lì nacquero i ragazzi: Alberto, Tony ed Enrico, 3 eccellenti musicisti che all’inizio si esibivano assieme. Alberto suonava il basso, Enrico è stato il chitarrista italiano più apprezzato dell’era rock, Tony il cantante che ricordiamo. Io sono stato – lo sono ancora per Alberto, l’unico ancora vivente – il loro punto di riferimento sammarinese. Tony è stato snobbato e addirittura dileggiato per tanti anni dalla critica musicale: ritenuto troppo popolare. Come Orietta Berti, Mino Reitano, i Pooh. Poi l’aria è cambiata e tutti si sono accorti del valore e della serietà di questi artisti, al di là della leggerezza dei repertori. Tony era un amico generoso. Mi rubarono l’auto e lui mi prestò una delle sue fuoriserie: “Tienila per tutto il tempo che ti serve, un mese, un anno, io ne ho altre 4”».
Seduto al pianoforte, in compagnia di Little Tony
Raccontaci del Michele Bovi ragazzino. Come ti sei avvicinato alla musica? Chi sono i tuoi musicisti-riferimento, quelli che hanno “illuminato” la tua vita?
«Ragazzino con chitarra e sax tenore. Mi iscrissi anche al Conservatorio Santa Cecilia: il sax era proibitissimo e dovetti scegliere il contrabbasso, da suonare con l’archetto, guai a pizzicarlo stile jazz. L’insegnante era il professor Guido Battistelli, primo contrabbasso dell’Orchestra Ritmi Moderni della RAI (la prima volta che incrociavo l’etichetta RAI). Ho suonato con alcuni gruppi: i Boa Boa di Pierfranco Colonna, le Pecore Nere, The Others And Pataxo con Stefano D’Orazio alla batteria. I musicisti di riferimento d’allora sono gli stessi che preferisco oggi: Stan Getz, Paul Desmond, King Curtis per il sax; poi il trombettista/cantante Chet Baker e il chitarrista Chet Atkins. 2 gruppi molto amati: Young Rascals e Blood, Sweat & Tears. E un cantante su tutti: Otis Redding».
Bovi al sax con Gianni Colaiacomo (Banco Mutuo Soccorso), Clem Sacco, Gianni Dall’Aglio (Ribelli), Johnny Charlton (Rokes) e Detto Mariano
Oltre che il giornalista, esiste appunto anche il Michele musicista-sassofonista – quello che, fra gli altri, può vantare un CV con dentro Jimi Hendrix, King Curtis…
«King Curtis l’ho ammirato ad Ariccia: accompagnava Aretha Franklin, una sorta di festa di paese, all’epoca non si andava negli stadi. E neanche c’era tanta gente. Un po’ come accade ancora oggi al migliore jazz. Negli anni 2000 una sera andai ad ascoltare il magnifico sax di Joshua Redman all’Alexanderplatz di Roma: ci saranno state 150 persone. Con Jovanotti occorrevano 2 stadi. Anche nel maggio del 1968 nei suoi 4 concerti al Teatro Brancaccio di Roma c’era poca gente a seguire Jimi Hendrix. Io avevo 17 anni e suonavo nel gruppo di spalla, quello di Pierfranco Colonna. Ho anche cenato a tarda notte con Hendrix, Noel Redding e Mitch Mitchell: spaghettata privata allo Stork Club di Bologna. Fui costretto a farlo da Massimo Bernardi, l’organizzatore della tournée di Hendrix in Italia. Io avrei preferito andare a letto: amavo gli strumenti a fiato, non me ne importava nulla di quel chitarrista timido e silenzioso. Gli altri del mio gruppo, ovviamente, impazzirono dalla gioia. Dopo gli spaghetti fecero anche assieme una jam session, mentre io dormicchiavo su un divano».
Quali sono le prossime avventure editoriali e televisive che affronterai? Se non ricordo male, tempo fa mi avevi anticipato l’idea di un libro che riguarda cinema, Caroselli e musica – o qualcosa del genere…
«Un libro su cinema e Caroselli, senza musica: taglio thriller. E un lavoro televisivo su Joe Adonis, il boss di Cosa Nostra consigliere e sponsor di artisti di primo piano come Frank Sinatra e Harry Belafonte e gli italiani Mina, Tony Renis, Nini Rosso, Augusto Martelli, Dori Ghezzi».
Con Topo Gigio e la sua creatrice Maria Perego