«Come misuri il successo di una canzone?», chiese anni fa a David Crosby durante un’intervista realizzata per la piattaforma di streaming Tidal il giornalista e scrittore Jeff Tamarkin, storico e studioso della scena di San Francisco degli anni 60 di cui Croz era stato una bandiera. «In base alla sua capacità di trasportarti altrove facendoti compiere un viaggio», fu la sua risposta. «In funzione di quanto riesca a esprimere e, più di ogni altra cosa, per quanto sia efficace nel farti provare un qualsiasi tipo di sentimento: tristezza o anche rabbia».
È quel senso di mobilità, di irrequietezza, di ricerca continua e di autenticità anche scomoda a caratterizzare un repertorio come quello che ci ha lasciato in eredità, non molto frequentato da altri interpreti (troppo personale? Troppo “difficile ”, con tutte quelle accordature alternative e quelle linee melodiche ondivaghe?) ma che ora proprio in Italia, a poco meno di 2 anni dalla sua morte, trova un’appassionata celebrazione in Long Time Gone, un disco di respiro internazionale registrato fra vari studi sparsi per il paese, ma anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, da un nutrito gruppo di artisti legati da comune passione e che hanno aderito con entusiasmo al progetto (si tratta del 2° tributo nostrano al grande artista scomparso nel gennaio del 2023, considerando l’uscita, qualche mese fa su etichetta Route 61, del live Music Is Love – A Concert Celebrating The Music Of David Crosby con un cast in parte identico).
Jeff Pevar sul palco con David Crosby
© Francesco Lucarelli su gentile concessione di Chitarra Acustica Magazine
In questo caso tutto è nato nel settembre dell’anno scorso, quando all’Acoustic Guitar Village di Cremona (festival e mostra dedicati al mondo della chitarra acustica), Alessio Ambrosi e altri musicisti italiani hanno voluto rendere omaggio alla sua figura di cantautore e di icona culturale, ma anche di chitarrista fuori dagli schemi. Con Francesco Lucarelli e Alberto Grollo (in vece anche di direttore artistico) e con il sostegno di Andrea Del Favero, discografico indipendente e organizzatore del Folkest, Ambrosi è diventato promotore e coproduttore di questo album la cui credibilità e qualità sono suggellate dalla presenza di 2 figure chiave, che con Crosby hanno condiviso percorsi di vita, pubblicato dischi e suonato dal vivo fino all’ultimo. Il 1° è il tastierista James Raymond, figlio ritrovato nel 1995, che qui regala il suo elegante fraseggio pianistico a una flessuosa e rispettosa versione di Morrison, ritratto in chiaroscuro del cantante dei Doors incluso nel 1° disco dei CPR alias Crosby-Pevar-Raymond e rielaborato, in studio a Udine, da un sestetto di musicisti italiani raccolti sotto il nome di Carry On Band. L’altro è proprio Jeff Pevar, cantante e formidabile chitarrista protagonista in solitaria di un inedito, Higher Place, registrato nell’home studio di casa sua ad Ashland, in Oregon: un buon jazz blues sincopato e con qualche bella pennellata di slide, modellato su un testo del vecchio amico e partner.
Crosby e suo figlio, James Raymond
© Jeff Pevar
È ancora Pevar, stavolta impegnato alla lap steel, a sostituire degnamente la pedal steel di Jerry Garcia in una bella rilettura di Laughing eseguita insieme a Grollo (chitarra e voce) e alla sua band a un ritmo accelerato rispetto al placido ed estatico andamento della ballata che Crosby scrisse per celebrare l’innocenza infantile e mettere in guardia l’amico George Harrison dai falsi guru: nel 1971 diventò 1 degli episodi più ispirati e luminosi di If I Could Only Remember My Name, il capolavoro indiscusso di Crosby e della musica della Bay Area da cui Long Time Gone recupera anche l’inno hippie Music Is Love e Orleans. La prima diventa più eterea e jazzata, con la voce, il piano e la chitarra di Jackie Perkins (statunitense del South Carolina ma trapiantata a Parma) in dialogo con il basso fretless di Stefano Carrara e il sax soprano in bella evidenza di Fabrizio “Biccio” Benevelli; la seconda viene ricondotta in alveo folk da Michele Gazich (voce recitante, violino, viola e campana tibetana) e Del Favero (fisarmonica diatonica e fujara, un flauto armonico d’origine slovacca) con bella inventiva e timbriche inusuali. Mentre 53 anni fa le voci sovraincise da Crosby proiettavano in una dimensione onirica e psichedelica l’antica filastrocca infantile francese risalente al 15° secolo, i 2 la riportano alle sue antiche origini con una solennità quasi mistica.
Alberto Grollo
© Matteo Coda
Accanto alle chitarre, il violino è coprotagonista di altre belle rivisitazioni: suonato da Antony John Silveri, s’intreccia al piano di Grollo e alla chitarra classica di Andrea Luciani (anche voce solista) in Carry Me, “canzone d’amore e trascendenza” che Crosby scrisse nei primi anni 70 per il suo 2° album con Graham Nash, Wind On The Water, e che qui si riveste di sonorità acustiche fra country & roots; nelle mani di Marco Benz Gentile, dialoga con la Spanish guitar di Alex Gariazzo, con la fisarmonica di Roberto Bongianino e con il basso di Michele Guaglio in una The Lee Shore a 2 voci che il quartetto Smallable Ensemble interpreta in punta di piedi per non infrangere l’incanto sottile dell’originale, una delle più poetiche canzoni d’ispirazione marina scritte da Crosby a bordo della sua goletta.
Anche la sua musica è sempre stata materia liquida in balìa di moti ondosi, fluida e in divenire: merito anche di un’educazione musicale senza confini che aveva assorbito la folk song del Kingston Trio e le armonie vocali degli Everly Brothers; il jazz modale di Miles Davis; i raga di Ravi Shankar e, più tardi, la perfezione estetica del pop degli Steely Dan. David era un maestro dell’arte obliqua, fabbricante di melodie magiche ed eteree («In CS&N», disse una volta, «Graham Nash era quello che scriveva le hits, io quello che scriveva la roba strana») che ancora oggi trasportano profumi di California, di utopìa libertaria, di oceano e di amore libero. Qui, nelle mani del chitarrista Gg Cifarelli, celebrato discepolo di Wes Montgomery e George Benson, Triad e il suo scandaloso triangolo amoroso si aprono a una smooth fusion notturna e sensuale (citando in coda Song With No Words), con una rielaborazione radicale quanto quella che i Rawstars, con Lucarelli alla chitarra e la voce di Luisa Capuani, applicano ad Almost Cut My Hair: in Déjà Vu il proclama freak e la polemica anti establishment della canzone si esprimevano attraverso il timbro rauco della voce di Croz e quello acido delle chitarre elettriche; qui tutto si fa soffuso, crepuscolare e più nostalgico, con la tromba jazz di Giovanni Di Cosimo a ricamare in primo piano.
Maurizio Bettelli e Amos Amaranti
© Gianni Greco
La title track dello storico disco di Crosby, Stills, Nash & Young è resa in maniera sostanzialmente più simile all’originale da Giancarlo Masia, che canta e suona l’armonica oltre a chitarra elettrica e acustica: l’arrangiamento (con mandolino, violino, basso e un loop di percussioni) è diverso, ma il feeling è simile, la suddivisione in 2 parti è rispettata così come i cambi di tempo e la struttura circolare di 1 dei pezzi più ipnotici e sperimentali del catalogo crosbyano. Non manca, fra i classicissimi, neanche Guinnevere: e siccome la versione cantata dall’autore resta inarrivabile, fa bene l’inglese Clive Carroll (virtuoso del fingerstyle che ha avuto fra i suoi mentori John Renbourn e Tommy Emmanuel) a scegliere una rivisitazione strumentale in cui le sue chitarre sovraincise mantengono i tempi mutevoli e l’atmosfera poetica, delicata e rapita dell’originale.
Decisamente meno nota, Anything At All era un piccolo gioiellino seminascosto in CSN del 1977 che Stefano Micarelli (chitarra e voce solista) e il vocalist/armonicista Joe Slomp, cresciuto nel circuito dei jazz club romani, avvolgono di sonorità morbide e flessuose. Un plauso a loro, per la scelta di una deep cut dimenticata da molti; e a chi ha preferito orientarsi sulla produzione più recente di un artista che, rivitalizzato dalle collaborazioni con musicisti molto più giovani di lui, nell’ultimo decennio di vita era tornato prepotentemente sulla scena con un’inattesa sequenza di dischi ispirati e un bel mazzo di brani eccellenti come l’apocalittica e sinuosa Vagrants Of Venice (da Here If You Listen, 2018) riarrangiata per 3 voci, tromba e chitarre (velocissime e sguscianti, le suona il virtuoso Gavino Loche) e Paint You A Picture (Lighthouse, 2016), cofirmata da Marc Cohn e che Maurizio Bettelli (autore di canzoni per i Nomadi, compositore, docente, musicologo e studioso di culture anglo-americane) interpreta con autorevolezza e bel piglio da classico folk singer (alla chitarra c’è il suo concittadino modenese Amos Amaranti, che del gruppo di Augusto Daolio e Beppe Carletti fece parte nei primi anni 70).
Sono composizioni che ci ricordano come Crosby, a dispetto di tante burrasche, abbia tenuto dritto il timone fino all’ultimo viaggio regalandoci una musica che ha continuato a rifletterne lo spirito indomito e avventuroso trasmettendo un amore per la vita e un desiderio di libertà che in un disco come questo, realizzato con cura e dedizione, si perpetuano oltre la sua morte terrena.