Una femme fatale un po’ in là con l’età, capelli cotonati e argentati, unghie smaltate di rosso e rossetto dello stesso colore. Una fisarmonica (anzi: una concertina) smisurata che le si snoda intorno come un serpente. Dietro di loro, un materasso extralarge. La copertina di Dixie Chicken (Warner Bros. Records, 1973) è in apparenza la meno surreale e fuori di testa fra quelle che il visionario e geniale cartoonist Neon Park realizzò per i Little Feat negli anni 70.
Eppure, come rivela Dennis McNally nelle note di copertina della ristampa deluxe (3 Lp o 2 Cd) appena pubblicata dalla Rhino assieme a quella del precedente Sailin’ Shoes, nasconde un piccolo, divertente e pruriginoso segreto, evocando un episodio perfettamente in linea con il folklore che circondava la band di Los Angeles e il suo immaginario: il volto della donna ricorderebbe quello di una prostituta di Las Vegas che il tastierista Bill Payne colse un giorno in flagrante in compagnia del road manager Ducka nel suo appartamento con il top sollevato, i pantaloni abbassati e le manette ai polsi; lo strumento, quello, che il padrone di casa si mise immediatamente a suonare per coprire le loro rumorose effusioni amorose. La scena si svolse in prossimità del Sunset Boulevard, in un alloggio affacciato sul parcheggio di un noto ristorante della zona, il Cock ‘n Bull, frequentato da artisti, musicisti, scrittori, spacciatori e battone.
Little Feat
La stessa fauna che popolava allora il mondo, reale e di fantasia, dei Feat, le loro scorribande on the road e la loro Città degli Angeli impregnata di umori sudisti che in quel momento non portavano solo al confine col Messico ma anche a 3.000 km. di distanza, verso le paludi della Louisiana. Al posto di un galletto e di un toro, in Dixie Chicken – la canzone che intitola il disco – ci sono così una pollastrella del Sud e un agnellino del Tennessee che le fa la corte. Quel buffo titolo l’ha trovato l’autore del testo Fred Martin (alias Martin Kibbee) passando in auto, dopo una notte trascorsa in sala prove, davanti all’insegna di una tavola calda dalle parti del Laurel Canyon.
Lowell George, leader del gruppo e autore della musica, nicchia, poi acconsente e pensa a come rivestire quelle strofe assurde e divertenti con un irresistibile, pigro e sincopato country blues verniciato di dixieland: ci dà dentro con il bottleneck che lui stesso si è costruito adattandolo alla mano piagata da un vecchio incidente; lascia briglia sciolta al piano honky tonk di Payne (che per il suo fraseggio s’ispira a How Many More Years di Howlin’ Wolf); incoraggia il fantasioso batterista Richie Hayward a trovare il giusto groove e mette alla frusta i nuovi arrivati: il rossiccio e sgamato Paul Barrère, chitarra ritmica e all’occorrenza solista, è una sua vecchia conoscenza scolastica che sa già tutto il repertorio antecedente del gruppo a memoria e gli permette di concentrarsi sulla amata slide; il bassista Kenny Gradney dalla enorme zazzera a cespuglio e i baffi spioventi (lo chiamano “Stuff ” e sa suonare di tutto) e l’apollineo, muscoloso e colored Sam Clayton, suonatore di congas e tombeur de femmes, sono 2 transfughi dalla band di Delaney & Bonnie con 2 spalle grandi così. Sono i 3 tasselli che, dopo il divorzio dal bassista Roy Estrada, mancavano per completare quello che diventerà il sestetto classico accanto al geniale e barbuto Lowell, aria arruffata, fisico incline alla pinguedine, piedi piccoli (di lì il nome del gruppo) e cervello fino; al filiforme Payne, surfista baffuto e dai capelli lunghissimi con la faccia da baro da saloon e un talento straordinario con qualsiasi strumento a tasti; e a Hayward, l’hippie anarchico e un po’ folle dell’Iowa che fa imbestialire Lowell perché non suona mai due volte un pezzo allo stesso modo.
Lui, George, s’è formato nelle Mothers Of Invention di Frank Zappa, ma è durato poco dato che il genio di Baltimora accanto a sé non vuole gente che beva e che si droghi. Ha fatto comunque in tempo ad assorbirne alcuni tratti fondamentali: i guizzi creativi, l’insofferenza per le etichette, il gusto per l’assurdo cui aggiunge una predisposizione naturale per qualsiasi strumento musicale iniziando dalla chitarra, una voce bella ed espressiva «alla granella di vaniglia» (copyright del compositore e grande amico Van Dyke Parks), uno spirito collaborativo e una generosità che lo fanno benvolere da chiunque. Per dire: 5 e dei 10 pezzi di Dixie Chicken portano solo la sua firma, eppure lui si premura di spartire i diritti d’autore con tutti gli altri riconoscendone il contributo fondamentale all’evoluzione delle canzoni (basta ascoltare il paio di demo inclusi in questa ristampa per rendersene conto). S’è preso una cotta per i suoni di New Orleans; e non a caso Gradney e Clayton arrivano proprio da lì, dalla Crescent City: quel che ci vuole per alimentare il motore a scoppio della band con una benzina ricca di ottani funk, ultimo ingrediente di un gumbo sonoro che già incorpora e trasfigura ogni genere di musica tradizionale americana, il blues, l’r&b, il country e il gospel.
Risultato: i Little Feat non assomigliano a nessuno, proprio come i Rolling Stones di Exile On Main Street che Lowell prende esplicitamente a modello ampliandone fonti e riferimenti. «Unica regola: non ci sono regole» (come ricorda oggi Payne). Ne vien fuori una musica fluttuante dal groove sincopato, rilassato ma implacabile, frutto di ore e ore di prove in studio e di jam improvvisate sul palco; e che diventa un marchio di fabbrica. Ascoltate lo sferragliare delle locomotive sbuffanti di Two Trains (Payne al piano elettrico Wurlitzer per emulare il suono di Ray Charles) e gli omaggi espliciti alla Big Easy: il narcotico e strisciante strumentale Lafayette Road che chiude il disco e la meravigliosa cover di On Your Way Down, un pezzo del Maestro Allen Toussaint che Payne avvolge con le sonorità gospel del suo piano e del suo organo mentre il resto della band la trascina in un angolo buio, misterioso e un po’ sinistro del Quartiere Francese.
Un ritmo da second line autenticamente neorleansiana, al comando di una marching band che festeggia il Mardi Gras, irrompe nell’altro pezzo forte (e colonna portante dei concerti da lì in poi), Fat Man In The Bathtub, titolo tipicamente e squisitamente dadaista, ritmi dispari e mutanti, campanacci e un mellotron che suona nel registro di una «sezione di trombe messicane ubriache» mentre il protagonista della canzone cerca invano di conquistare la sua Juanita in quello che è probabilmente un bordello di confine dove un grassone giace placido e forse già appagato in una vasca da bagno. Le splendide e grintose voci blues di Bonnie Bramlett e di Bonnie Raitt rinforzano il ritornello come avevano già fatto in Dixie Chicken, mentre quella di un altro amico di George, Danny Hutton dei Three Dog Night, gli fa da rauco controcanto nel pezzo più intimista, “unplugged ” e sgualcito del disco: Roll Um Easy, Lowell alla chitarra acustica, alla slide e alla voce solista (con una citazione della concertina nel testo), Hutton sfiatato alla fine di un tour impegnativo. In quei solchi ha «una voce da vecchio» e, dice Payne, simile a quella di Keith Richards quando sembra stonato e invece è perfettamente in bolla con la musica degli Stones. Danny ne è quasi imbarazzato, ma Lowell ha quello che cercava: «La tua voce qui è proprio orribile. Fantastico!».
Dal giro sterminato delle sue conoscenze fra L.A. e dintorni arriva anche Fred Tackett, cantautore, chitarrista e polistrumentista che nei Feat entrerà proprio a seguito della sua prematura dipartita nel 1979 e che qui gli regala l’r&b bianco di Fool Yourself ispirata da una foto dell’attrice teenager Olivia Hussey (Romeo e Giulietta) vista sulla copertina di una rivista, mentre la band ci mette di suo un arrangiamento un po’ byrdsiano e Hayward s’inventa un pattern ritmico poi ripetutamente campionato dagli artisti del mondo hip-hop a cominciare dai Fugees della fortunatissima cover di Killing Me Softly With His Song. Mentre Payne e Barrère si spartiscono le parti vocali e i crediti di Walkin’ All Night, dedicando a un’altra signora della notte il pezzo più puramente rock and roll e stonesiano del disco, è Lowell ad allargare lo sguardo e a osare di più: sia tra gli aromi di patchouli, gli echi di psichedelìa orientaleggiante, il sitar e le tablas (le suona il celebre Milt Holland) di Kiss It Off dove Payne, al synth, crea una coltre nebbiosa mettendo a frutto gli insegnamenti di Bob Margouleff e Malcolm Cecil, collaboratori di Stevie Wonder; sia nella tenera e quasi jazzata Juliette, in cui il talento senza confini di Lowell si esprime anche al flauto.
4 dei 10 pezzi del disco compaiono anche nel live registrato il 1° aprile del 1973 al Paul’s Mall di Boston e ripreso da una trasmissione radiofonica d’epoca, piatto forte del disco bonus (intitolato Hotcakes, Outtakes, Rarities & Icepick Eldorado) aggiunto alla nuova ristampa: performance di sola mezz’ora, ma integrale e molto densa con una bella versione dell’immancabile Willin’ (il pezzo più noto della band) e una A Apolitical Blues esplicitamente dedicata a Howlin’ Wolf, mentre tra gli “scarti ” di studio spiccano la strumentale Eldorado Slim, palestra di improvvisazioni jazz funk; e una prima versione di Hi Roller, 4 anni dopo riproposta in forma molto diversa nell’album Time Loves A Hero.
In quel periodo Robert Plant e Jimmy Page (fan entusiasti e dichiarati), i Rolling Stones e persino l’inafferrabile Bob Dylan si affacciavano ai loro concerti: stregati da quel sound che, come diceva Chris Darrow dei Kaleidoscope, sapeva mutare pelle come una lucertola, ispirato a una filosofia che George e Parks amavano definire droit gauche («Quando tutto fa supporre che tu stia svoltando a destra, gira a sinistra»). Il motivo della loro longevità (nonostante le morti di George, Hayward e Barrère) e di una straordinaria reputazione a dispetto di vendite mai eclatanti.