Proxy Music, cioè musica per procura. Quella che Linda Thompson ha delegato a un gruzzolo di parenti, amici e colleghi visto che le sue nuove canzoni – quasi tutte scritte a 4 o a 6 mani con i suoi ospiti – lei non le può più cantare a causa dell’aggravarsi di una maledetta malattia, la disfonìa spasmodica che la tormenta da più di 50 anni danneggiandole i muscoli della laringe e alterandone la voce. Quel titolo le dà anche occasione di sfoggiare, in copertina, il suo inarrivabile senso dell’umorismo, mettendosi (a 76 anni) nei panni succinti della modella in stile pin-up anni 50 che nel 1972 ammiccava dalla celeberrima busta del 1° album dei Roxy Music (i richiami al gruppo di Bryan Ferry finiscono qui).

Linda Thompson
© Tom Oldham

Ironia e leggerezza non mancano neppure in un disco in cui la protagonista si espone spesso senza falsi pudori. “Una volta avevo una voce chiara e sincera”, sono le prime parole che nel tenero e diafano valzer The Solitary Traveller fa cantare alla terzogenita Kami, mettendo subito in chiaro che in questo album non ha alcuna intenzione di nascondere le sue debolezze, le sue malinconie e i suoi rimpianti. È abituata a circondarsi della sua ampia famiglia, nei suoi non frequenti album solisti; e anche questa volta non viene meno alla regola: oltre a Kami e al genero James Walbourne, chitarrista dei Pretenders con il piglio dell’autentico rocker, c’è l’altro figlio Teddy che come sempre assume il ruolo cruciale di motivatore, produttore e orchestratore di un progetto che ha preso forma in vari studi di registrazione in giro per il mondo: a Londra e a Edimburgo, nello Yorkshire e nel Northumberland, a Brooklyn e a Los Angeles, a Reykjavík e in Virginia. E ci sono 2 generazioni di chitarristi: il nipote Zak Hobbs e l’ex marito Richard, che si tiene nelle retrovie attento a non rubare la scena con i suoi parchi interventi vocali e strumentali e che con Linda ha collaborato anche alla stesura di 1 brano (non succedeva, a memoria, dai tempi di Did She Jump Or Was She Pushed?, 1982).

Kami e James, altrimenti noti come The Rails, intrecciano le voci (con la ex signora Thompson per la prima e unica volta ai cori) nel folk antico di Mudlark, una specialità della casa che si tinge di sonorità più elettriche nella delicatamente nostalgica I Used To Be Pretty in cui è l’inglese Ren Harvieu a fungere da transfer vocale («È così spaventoso, avere l’età che ho oggi», ha dichiarato Linda al Guardian qualche settimana fa discutendo del tema della canzone: l’invecchiamento e la perdita della bellezza giovanile. «È vero, non te ne frega più un cazzo di quel che la gente pensa di te, ma è una balla che si diventi più saggi. Piuttosto diventi più stupido e non ricordi più i nomi di nessuno»). Poco nota alle nostre latitudini è anche la statunitense Dori Freeman, che tra il banjo e il violino (suonato da David Mansfield, vecchio reduce della Rolling Thunder Revue dylaniana) di Shores Of America si connette alle sue radici appalachiane; mentre John Grant, nome di culto dell’indie rock da tempo votato all’elettronica, recupera qui quei delicati e melodiosi toni elettroacustici che avevano fatto di Queen Of Denmark, 24 anni fa, un autentico gioiello, mischiandoli ad aromi country e ai gorgoglii di un sintetizzatore: chiamato al compito surreale di cantare una canzone che porta il suo nome e parla di lui, mette a segno una delle interpretazioni migliori della raccolta.

Richard e Linda Thompson
© Andy Horvitch

Il tono intimo, familiare e confessionale si fa ancora più fitto nel resto del disco, avventurandosi in una foresta di alberi genealogici. Anche se qui compare senza parenti, Eliza Carthy (cantante e violinista) è erede di una delle dinastie più prestigiose del folk inglese e si conferma una autentica forza della natura in That’s The Way That Polka Goes dove usa anche il suo corpo in funzione percussiva e danzereccia quasi materializzandosi davanti allo stereo. In Bonnie Lass sono i fratelli scozzesi Craig e Charlie Reid alias i Proclaimers a riscoprire l’amore per la musica tradizionale delle loro terre affiancati da chitarre acustiche e da un altro virtuoso del violino, il veterano Aly Bain; mentre non potevano certo mancare all’appello amici fraterni come i canadesi Wainwright, Martha e Rufus: lei in una ballata pianistica (Or Nothing At All) che le permette di sfoggiare la sua intensa teatralità alla Edith Piaf, lui sfavillante, pienamente a suo agio e morbidamente adagiato fra le sonorità rétro anni 40, l’atmosfera da film hollywoodiano, lo swing, il contrabbasso, la batteria e i clarinetti di Darling This Will Never Do. Ancora meglio Rachel e Becky Unthank (ovvero le Unthanks, con il pianista e polistrumentista Adrian McNally), che nella dark ballad di sapore marinaresco Three Shaky Ships, firmata da Richard e Linda, incantano e mettono a frutto la loro abilità nel costruire scenari spettrali immersi nelle brume del tempo, ma con uno stile sempre in sospeso tra classicismo cameristico e gusto postmoderno.

Le Roches, 3 sorelle del New Jersey che negli anni 90 avevano messo in stallo la loro carriera definitivamente interrotta nel 2017 dalla morte di una di loro, non sono presenti in carne e ossa ma in spirito in un altro brano che nel titolo le cita per nome. Tenera, ironica, candida e sentimentale, Those Damn Roches (amabile anche il video) è l’epilogo perfetto che dà un senso a tutta l’operazione: lo spleen e la melodiosità delicata della voce di Teddy Thompson, sostenuta dagli harmony vocals dei suoi parenti, veicolano con efficacia un testo in cui Linda riflette sugli stretti legami e sulle disfunzionalità croniche tipiche delle famiglie di musicisti: le “maledette Roches ” come i Waterson: Carthy, la Copper Family e gli stessi Thompson, “incapaci di andare d’accordo/se non quando sono lontani ” ma sempre desiderosi di ritrovarsi e accomunati da un’incrollabile consapevolezza: “Quando cantiamo forte e chiaro/chi può fermarci?/legati dal sangue e dalle canzoni/chi può distruggerci? ”.