Nel suo illuminante Raccontare la fine del mondo, il saggista e ricercatore Marco Malvestio non definisce solo un’interessante panoramica sulla fantascienza apocalittica, post apocalittica e distopica, ma riflette sulla problematizzazione del rapporto fra narrazione e realtà secondo cui, per dirla come il critico e scrittore (da lui citato) Samuel Delany, “la fantascienza non riguarda il futuro: usa il futuro come convenzione narrativa per rappresentare distorsioni significative del presente ”.

Riflessione che assume contorni ancora più lucidi e affascinanti se si considera l’intrico di relazioni che spesso si instaurano fra realtà storica, invenzione e narrazione, all’interno del quale – come si suol dire – talvolta è la prima a superare inequivocabilmente la fantasia. Una lettura che ci porta a riflettere su come il 16 luglio del 1945, la detonazione che ha portato all’esplosione del primo ordigno atomico nell’ambito del Trinity Test, ha avuto una portata tale, in termini di diffusione di particelle carbonio-14, da ritenersi un punto di non ritorno per la storia del nostro pianeta. L’inizio dell’Antropocene, secondo alcuni, cioè di quell’epoca – la nostra – nella quale l’uomo conclude la sua carriera di fattore antropico e biologico per guadagnarsi lo stesso status e relativo impatto di un fattore geologico.

Scienza dunque, non fantascienza. Cui si aggiungono storia, narrazione e cinema: discipline che flirtano magistralmente con la meccanica dell’Apocalisse in Oppenheimer, ultima strabiliante fatica targata Christopher Nolan. Un’opera imponente, capace di trasformare le dinamiche del biopic in indagine di carattere storico, riflessione escatologica, poesia visiva e viaggio profondo nel cuore di una delle personalità più discusse del ‘900: Robert Oppenheimer, brillante scienziato, uomo eclettico, dalla teatralità innata, nonché “papà ” della bomba atomica, incastonato nell’interpretazione di un Cillian Murphy capace d’incarnare quella “gravità che inghiotte la luce ” ad un livello sempre più profondo, man mano che la pellicola disvela il corso degli eventi che lo vedono protagonista.

Cillian Murphy

Il film, che prende spunto dalla biografia American Prometheus: The Triumph And Tragedy Of J Robert Oppenheimer (di Kai Bird e Martin J. Sherwin, edita in Italia con il titolo meno rivelatore e suggestivo Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato, nda), si distingue per una serie di elementi visivi e narrativi capaci di spingersi ad un livello d’indagine che coinvolge sin dall’inizio la riflessione archetipica e simbolica, evidente in alcuni parallelismi fra cui quello che accomuna Oppenheimer a Prometeo; e quello che vede nella mela non soltanto il frutto venefico, foriero di morte e discordia della narrativa popolare e del mito, ma anche l’emblema del tabù, del divieto che una volta infranto porta irrimediabilmente a quel bivio fra conoscenza e caduta tanto caro ai testi biblici.

Una narrazione stratificata che brilla di un cast stellare voluto da Nolan non tanto per bieca ostentazione dell’opulenza delle major (il passaggio dalla Warner alla Universal gli ha garantito, specie in questo caso, l’accesso a fondi considerevoli) ma che nasce dalla volontà di dare un volto noto, quindi immediatamente riconoscibile e più propenso ad entrare nella memoria dello spettatore, a tutti i personaggi che nella finzione scenica danno corpo ai “reali attori ” dei fatti narrati. In questo modo, Oppenheimer consegna alla storia interpretazioni capaci non solo di scendere nel profondo dei personaggi incarnati sullo schermo ma di creare vicinanza emotiva, viaggio nell’alterità, contatto percepibile in modo quasi fisico con lo spettatore. Una prova nella quale non c’è che l’imbarazzo della scelta, se si vuole individuare l’eccellenza, a titolo della quale possono bastare le interpretazioni di Florence Pugh, Emily Blunt, Robert Downey Jr, David Krumholtz e Kenneth Branagh, cui si aggiunge un Casey Affleck particolarmente ispirato che nel dare un volto a Boris Pasch (eminenza grigia dell’intelligence militare americana, nda) riesce a trasmettere, nei tempi che andrebbero a definire poco più che un cameo, tutta la ferocia che si agita sotto la cute di una maschera vampiresca, predatoria, inquietante, letale.

Una capacità, quella di condividere l’anima attraverso volti, posture e movenze, che viene sicuramente esaltata dalla partnership con la Kodak, grazie alla quale è stata sviluppata una particolare tipologia di pellicola che ha consentito alla tecnologia IMAX di cogliere ogni più significativo dettaglio della mimica facciale degli attori, i cui personaggi si muovono in un contesto nel quale, a più riprese, la fotografia sembra ricordarci un’idea che contrasta con quella di distruzione, morte, devastazione. Dai flussi di particelle sgargianti che colorano il mondo agli occhi del giovane Oppenheimer, alle corrispondenze cromatiche che armonizzano gli abiti di scena con gli ambienti (tanto le pareti di una casa, quanto gli esterni), il film di Nolan ci comunica, ad un livello visivo che rasenta il messaggio subliminale, che per quanto la nostra specie possa spingersi al punto di portare l’intero pianeta ad un passo dall’annientamento, non può sottrarsi alla sua natura di “ingranaggio”, di parte del tutto, di elemento naturalmente incline alla risonanza con tutte le particelle del creato. Un’attenzione, quella che comprende l’incedere sui volti, sulle armonizzazioni cromatiche e su un utilizzo simbolico e rivelatore della fotografia, cui si aggiunge la scelta di alternare il colore al bianco e nero, attraverso il quale il regista passa per dare un filtro cosciente ai concetti di “memoria, oggettività, soggettività ”.

Robert Oppenheimer
(1904-1967)

In Oppenheimer nulla è affidato al caso. Dalla celebre citazione che lo scienziato pronunciò durante il Trinity Test: «Adesso sono diventato Morte, il distruttore di mondi» presa dal Bhagavadgītā, alla criptica sigla (K – 6) che indossa lo scienziato durante le fasi di sviluppo e conduzione del test, fino alla definizione di un rapporto simbiotico, di una profonda confidenza fra attori/personaggi e ambienti, in base alla quale non solo sono state usate per le riprese le reali abitazioni di Robert Oppenheimer, ma è stata ricostruita ex novo una copia pressoché perfetta della cittadina di Los Alamos. Un viaggio nel quale – ultimo ma non meno importante – lo spettatore viene portato a ridurre anche la distanza storica ed emotiva dal “papà della bomba atomica ”, non tanto per trovare una giustificazione alla sua ambizione e alle conseguenze della stessa: i morti di Hiroshima e Nagasaki, l’algebra del terrore che ha generato una vera e propria psicosi, purtroppo terribilmente attuale, rispetto alle conseguenze dell’uso dell’atomica, resteranno sempre sulla sua coscienza, ma la riflessione sulla complessità di una figura che nel nome della scienza ha esperito ascesa, crollo e un tormento che non è necessario compendio al concetto di redenzione, sono parte altrettanto viva e pulsante della narrazione.

Narrazione al centro della quale si pone un Cillian Murphy superlativo, capace d’incarnare in modo profondo l’eclettismo, la teatralità di cui il vero Oppenheimer era consapevole e sfruttava davanti ai media, in una performance pressoché costante che tanto avrebbe fatto la gioia dell’Erving Goffman di La vita quotidiana come rappresentazione. Una prova attoriale che lo coinvolge in modo totalizzante: postura, prossemica, micro espressioni, cui si aggiunge più di un laccio con il David Bowie del periodo Thin White Duke. Al netto della richiesta esplicita di Nolan, che dopo aver sottoposto lo script all’attore irlandese gli aveva indicato alcuni specifici outfit indossati da Bowie nel 1976, lo sguardo, il pensiero e la memoria non possono non ritrovare nel Robert Oppenheimer di Murphy istantanee del Thomas Jerome Newton portato sugli schermi da David Bowie ne L’uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg.

David Bowie/Thomas Jerome Newton sul set del film L’uomo che cadde sulla Terra (1976)

Legami e corrispondenze che non passano solo attraverso vestiti, completi eleganti, il cappello nero che contribuisce a delineare la silhouette di entrambi (si confronti in merito la locandina originale del film realizzata dall’illustratore Vic Fair, nda) ma anche la sua capacità di dar corpo, in entrambi i casi, ad una figura esile, vulnerabile ma al contempo attraversata da un’elettricità corrosiva. È in questo senso che la folle, deformante risata che attraversa il volto di Bowie/Thomas Jerome Newton (la scena è quella in cui perde il senno davanti alla sua parete di televisori “urlanti ”) e quella che a più riprese fa dell’Oppenheimer di Murphy una maschera contratta, sempre sul punto di strapparsi, rivelano la stessa drammatica matrice. E ancora, i panorami del New Mexico che in entrambe le pellicole diventano metafora della catastrofe post apocalittica, dell’aridità a cui soccombe un panorama che subisce “la caduta ” tanto quanto chi, come Prometeo, cerca di donare ai suoi simili una forza primigenia e vitale come quella del fuoco (o dell’acqua), finendo poi per condannare anche loro.