Non sono dei jazzisti né degli intellettuali minimalisti, ma in pochi anni di carriera i King Hannah da Liverpool sembrano avere già assorbito alcuni insegnamenti preziosi. Capendo, per esempio, che in musica i silenzi contano anche e più delle note che si suonano (lo dicevano Claude Debussy e Miles Davis) e che spesso il less is more, il sottrarre anziché aggiungere, è un ingrediente fondamentale di una ricetta di successo. Cosicché dal vivo, ancora più che su disco, risultano bravi ed efficaci nel gioco del chiaroscuro, così come nella contrapposizione fra melodia e rumore.
Della prima si occupa principalmente Hannah Merrick, presenza fragile eppure carismatica con una voce suadente, profonda e lievemente increspata, sensuale e distante. Del secondo Craig Whittle, capace di arpeggi delicati e di morbide sottolineature ma più spesso incline a torturare la sua chitarra elettrica spingendola al limite del noise e alla ricerca di timbri stridenti. Di conseguenza, anche le canzoni apparentemente più lineari, sommesse e cristalline a un certo punto si sporcano, crescono di volume e dimensioni, diventano altro rispetto al punto di partenza. La formula a volte è ripetitiva: si sente che stanno imparando e che sono ancora un po’ acerbi, ma proprio per questo quei loro frutti asprigni lasciano un gran bel sapore in bocca e hanno il fascino delle cose naturali. Niente calcoli, niente trucchi del mestiere ma molta spontaneità, si direbbe.
Craig Whittle e Hannah Merrick
La loro è musica in rapido divenire, che sul palco si giova della presenza di 1 bassista e di 1 batterista giovani come loro e volenterosamente concentrati nella costruzione e nello sviluppo del groove spesso lento e insistente di una musica decisamente contemporanea ma ricca di riferimenti al passato (per questo, accanto a loro giovani coetanei under 30 c’è una nutrita rappresentanza di 40enni, 50enni e oltre): in primo luogo i Velvet Underground e un certo Lou Reed solista, faro dello scabro sound prodotto dalle chitarre dei 2; un pizzico di psichedelìa acida e di Neil Young, quando sale in groppa ai Crazy Horse per le sue cavalcate libere e selvagge; il trip-hop bristoliano dei tardi anni 80 e le ballate indolenti e narcotiche dei Cowboy Junkies e dei Mazzy Star, anche se la coppia preferisce citare fra le sue influenze artisti quali PJ Harvey, Courtney Barnett e Silver Jews.
Salgono in scena con ¾ d’ora abbondanti di ritardo quando nel bel giardino della Triennale di Milano comincia a serpeggiare una certa inquietudine e l’inizio è travagliato da problemi al microfono di Hannah; ma poi tutto si sistema e il quartetto può lanciarsi in un programma sostanzialmente identico a quello delle 3 date precedenti del suo mini tour italiano a Bologna, Genova e Rapolano Terme (SI). Peccato non includano le cover di cui sono sensibili e originali interpreti (State Trooper di Bruce Springsteen, Like A Prayer di Madonna), mentre la scaletta è incentrata quasi interamente sull’ultimo album Big Swimmer: diario di viaggio del loro 1° tour statunitense a partire da quella Somewhere Near El Paso che in oltre 8 minuti disegna una mappa aggiornata dei topos della letteratura e della canzone d’autore on the road, fra stazioni di servizio sperdute in mezzo all’autostrada, distributori automatici di cibo e bevande spazzatura e motel con le macchie di sangue sul materasso, osservati a occhi spalancati ma anche con ironico disincanto da 2 ragazzi del Nord inglese che fino a pochi anni fa, tra studi universitari e serate trascorse a servire i clienti di un pub, cose del genere non se le sarebbero neanche sognate.
Tra i fumi del palco la presenza di Merrick, filiforme e in all black, è ancora più teatralmente suggestiva, mentre con i suoi occhiali e il berretto da baseball in testa Whittle si potrebbe facilmente scambiare per un ragazzotto del Midwest americano: è un inizio lento e in crescendo, il loro, con l’ipnotico parlato a cui Hannah ricorre spesso per esporre i suoi testi disadorni e autobiografici che sembrano estratti da un taccuino d’appunti, il beat scheletrico e ossessivo della sezione ritmica e una chitarra che alla fine solleva una tempesta elettrica.
Nella livida e lievemente inquietante Milk Boy (I Love You) l’azione si sposta a Filadelfia, mentre più avanti la iper velvettiana New York, Let’s Do Nothing è un’ode indolente al dolce far niente in una metropoli frenetica come la Grande Mela, tra pause caffè e visite alle gallerie d’arte nel tempo lasciato libero dagli impegni promozionali. Sono piccoli tranche de vie, film amatoriali in bianco e nero con una trama che la vocalist recita sullo sfondo aspro e brullo di ritmi e delle sei corde che improvvisamente si accendono di bagliori fiammeggianti. Ripresa dal 1° album I’m Not Sorry, I Was Just Being Me, Go-Kart Kid (Hell No!) è una filastrocca ciondolante e decisamente accattivante, mentre il minimalismo dell’ancora più antica Crème Brûlée gioca liricalmente e musicalmente con il non detto. Altrettanto fa The Mattress, più recente prodotto della scoperta dell’America da parte dei King Hannah e che di conseguenza si sviluppa come una sorta di affascinante blues postmoderno; John Prine On The Radio, che nel titolo cita 1 dei più grandi cantautori statunitensi degli ultimi 50 anni, probabilmente sconosciuto a una parte del pubblico, si avvolge invece in morbide sonorità country folk che ricordano la sua straordinaria musica e che si insinuano anche nello slowcore di Suddenly, Your Hand (nel testo viene citato un altro degli eroi musicali del duo: Bill Callahan) mentre Davey Says è il brano più uptempo lineare e rock and roll in scaletta, accompagnato dai battimani della platea.
King Hannah
© Amanda M. Hatfield
Quando non imbraccia la chitarra, Hannah mette le mani in tasca o raccoglie i lunghi capelli per scacciare caldo e zanzare; incita con disarmante timidezza il pubblico a fare più rumore e sorride quando s’accorge che qualcuno conosce tutte le loro canzoni a memoria, o invoca a gran voce un pezzo eseguito poco prima. Lily Pad chiude il set principale spingendo le prime file a un misurato headbanging, mentre il primo bis non può che essere la title track di Big Swimmer, fra i pezzi dell’anno almeno nell’ambito dell’indie rock e l’essenza perfetta del fascino dei King Hannah con quella linea melodica semplicissima e potente e quel suo febbrile crescendo elettrico (dal vivo manca l’introduzione acustica, e un po’ spiace). Poi, nella conclusiva It’s Me And You Kid, Craig torna ad armonizzare con la voce di Hannah, mai così aperta e spiegata: è come se, dopo avere trattenuto sentimenti ed emozioni per un’ora i King Hannah decidano di sfogarsi in un finale catartico e liberatorio cercando un contatto più stretto con chi li sta ascoltando con entusiasmo e devozione.
Dopo i suoi ripetuti e sentiti ringraziamenti, dalla borsetta la cantante estrae lo smartphone per immortalare il momento e la platea. Ma anche noi, lì sotto a pochi metri di distanza, ci portiamo a casa la bella istantanea di un concerto sottilmente seducente con l’impressione di avere assistito in diretta a un’altra tappa evolutiva di una creatura musicale già con una sua identità precisa e auspicabilmente diverse carte da giocare. Pubblico intergenerazionale, in scena una giovane band che rimette al centro le chitarre elettriche senza ricorrere ai cliché più triti del genere. Per chiudere con un telegramma alla Mark Twain, si potrebbe forse dire che finché esistono gruppi – d’accordo: eccezioni – così ancora una volta le notizie che danno per morto il rock and roll risultano essere decisamente esagerate.
Setlist
Somewhere Near El Paso
Milk Boy (I Love You)
The Mattress
Go-Kart Kid (Hell No!)
John Prine On The Radio
Suddenly, Your Hand
New York, Let’s Do Nothing
Davey Says
Crème Brûlée
Lily Pad
Bis
Big Swimmer
It’s Me and You, Kid