Anche se è passato 1 anno, anche se siamo a più di 6.000 chilometri di distanza, anche se alle nostre spalle non soffia la brezza dell’Oceano Atlantico e quel suono ci arriva dall’impianto audio domestico, l’ovazione incredula ed eccitata con cui il 24 luglio 2022 il pubblico ha accolto l’ingresso di Joni Mitchell sul palco del Newport Folk Festival fa venire la pelle d’oca e provoca scosse di commozione.

Ci era salita l’ultima volta nel 1969, su quelle storiche assi, quando era ancora una stella emergente del cantautorato americano di matrice folk con appena 2 album alle spalle. Ed erano passati 20 anni dal suo ultimo, vero concerto; 8 dall’aneurisma cerebrale che l’ha costretta a ripartire da zero per riconquistare parzialmente e a fatica la mobilità, il controllo del proprio fisico e la capacità di cantare e di suonare. Il suo ritorno alla musica, avvenuto nel 2019 lontano da occhi indiscreti, si deve a un suggerimento del vecchio amico Eric Andersen, folksinger della stagione aurea del Greenwich Village newyorkese; e alla cantautrice Brandi Carlile, fan sfegatata, interprete appassionata del suo classico repertorio e promotrice delle “Joni Jams ”, riunioni informali di amici e musicisti che a cadenza più o meno mensile si sono tenute da allora a casa Mitchell nel Laurel Canyon.

È stata lei, la Carlile, a volere ricreare l’atmosfera di quelle jam davanti a un pubblico, quello di Newport, che al termine del suo discorso introduttivo ha incitato a rivivere la storia. Perché questo è stato, quell’happening un po’ informale sui prati del Fort Adams State Park nello stile dei vecchi hootenanny folk davanti alle barche pigramente dondolanti nella baia: una pagina di storia della musica e del costume americano, che questo disco appena uscito documenta con qualche piccola variazione rispetto al canovaccio originale. Nei 61 minuti e 24 secondi del programma non trovano posto un paio di cover eseguite quel giorno: Love Potion N. 9 dei Clovers e Why Do Fools Fall In Love? di Frankie Lymon & The Teenagers (inclusa, nel 1979, nel live Shadows And Light), souvenir d’epoca American Graffiti, il rock and roll e l’r&b che nella seconda metà degli anni 50 scaldavano il cuore alle giovani ribelli come lei; mentre la sequenza originale delle canzoni è stata modificata forse per creare un’esperienza d’ascolto più accattivante e una narrazione più consequenziale.

Joni Mitchell e Brandi Carlile
© Nina Westervelt

Le foto del libretto e i video di YouTube ci fanno rivivere il momento: Joni seduta su un trono e circondata sul palco da una folla adorante di amici, colleghi e ammiratori; ieratica come una leader nativa americana con le sue treccine e la sua grande collana, il volto parzialmente coperto da un basco color blu cobalto e dagli occhiali da sole. La si sente ridere spesso e di gusto – lei, che ricordavamo sempre seriosa e concentrata sulla performance –, perfettamente cosciente di giocare quasi un ruolo da “guest star ”, da ospite di lusso impossibilitata a reggere tutto il peso dello show sulle sue spalle. Quando però prende in mano la situazione e si avvicina al microfono non ci sono dubbi: la regina è tornata, pronta a danzare i suoi ultimi valzer anche se la voce si è abbassata di almeno un’altra ottava e a volte si stenta a riconoscerla.

Nella Summertime di George Gershwin affronta con sicurezza sorprendente, con padronanza assoluta del fraseggio e con infinita classe da crooner di razza superiore 1 dei grandi standard dell’American Songbook. Mentre in una Both Sides, Now struggente come non mai, segue con facilità la melodia e scandisce perfettamente quelle parole poetiche, profetiche e oggi ancora più agrodolci, scritte da una giovane ragazza che nei suoi 20 anni sapeva proiettarsi con l’immaginazione in ogni stagione dell’esistenza umana per tracciarne un bilancio finale (“ho guardato la vita da entrambi i lati/da vincitrice e da perdente ”). Ci vuole un cuore di pietra per non farsi commuovere.

A qualcuno non piacerà troppo il clima esplicito di celebrazione, forse neanche il fatto che spesso siano Carlile e i suoi ospiti a dominare la scena in un percorzo a zig zag che abbraccia tutta la carriera; gli inizi da signora del canyon e le rabbiose invettive ecologiste dell’ultimo Shine (la title track in chiave gospel è una delle più belle sorprese in scaletta); i capolavori Blue, Court And Spark ed Hejira (che qui, raccontandone la genesi on the road, Joni confessa essere stato per diverso tempo il suo disco preferito); le hit e qualche composizione meno conosciuta. Con la sua vocalità potente, agile e cristallina, Brandi è una presenza costante e a volte straripante di entusiasmo, timoniera di una Big Yellow Taxi gioiosa, trascinante e corale (che Mitchell, divertita, chiosa pescando dalle sue corde vocali le note più profonde) e di una Carey con il suono tipico del dulcimer e il profumo di tempi antichi, direttrice di un’orchestra che oltre a una miriade di voci include percussioni, basso, pianoforte, il violoncello di Josh Neumann, il clarinetto di Allison Russell (Birds Of Chicago, Our Native Daughters) e, naturalmente, tante chitarre: quelle di Tim Hanseroth, di Blake Mills e di Taylor Goldsmith dei Dawes, voce solista in un’elettrica Amelia e in Come In From The Cold trasformata in una specie di mantra recitato fra le brezze marine a bordo oceano.

Joni Mitchell al Newport Folk Festival, luglio 1969
© David Gahr/Getty Images

È invece Marcus Mumford (Mumford & Sons) a duettare con Carlile in A Case Of You, rispettosa e ispirata anche se poi è Joni a procurare un vero fremito e a scatenare l’applauso quando in coda pronuncia la frase «I would still be on my feet», evocando i brutti momenti in cui sulle sue gambe non era in grado di reggersi. In piedi si alza per davvero quando Brandi la incita a darci dentro con una versione strumentale e in solitaria di Just Like This Train, una ragnatela fitta e intricata di accordi intessuti con la sua Parker elettrica in cui dimostra di non avere perso quel tocco magico e inafferrabile, di avere ancora nel corredo genetico quelle accordature aperte e quelle sequenze imprevedibili che solo lei sapeva inventare lasciando di stucco anche i jazzisti più scafati.

Molto più ruvide e terragne sono la chitarra elettrica e la voce della impetuosa Celisse in una Help Me quasi irriconoscibile, black, bluesata e lontanissima dal raffinato, morbido uptown r&b da FM che era in origine; mentre le voci di Jesse Wolf e Holly Laessig dei Lucius (che accompagnavano Roger Waters nell’Us + Them Tour) e di Wynonna Judd e Shooter Jennings, star del new country, rinforzano i momenti più corali, lirici, terapeutici e liberatori dello show. Come il gran finale di The Circle Game, una filastrocca quasi infantile sul ciclo della vita che con il passare degli anni si carica sempre più di significati: una celebrazione della giostra del tempo che a Joni Mitchell ha concesso benevolmente un altro giro inatteso.

Un piccolo, grande miracolo che ha preso forma davanti agli occhi dei 10.000 spettatori di Newport, 1 anno fa, e che ora rivive davanti alle nostre orecchie. Joni ancora capace di reggersi in piedi: non dopo un’ubriacatura d’amore, ma dopo una terribile malattia, senza paura nel mostrarsi per quel che è a 79 anni. Forte e fragile, compiaciuta e serena, circondata d’affetto e da un’aura mistica che sembra quasi di potere toccare con mano.