È il 21 agosto del 2000 e John Mellencamp si rivolge con tutto il fiato che ha in corpo a una folla di migliaia di persone radunatasi nella Delay Plaza di Chicago: «Questo non è un concerto, sto solo suonando per strada», avverte dopo il 1° pezzo della sua performance acustica e ad accesso gratuito: una quarantina di minuti che portano nella Windy City – a sorpresa e senza il benestare delle autorità locali – il suo Good Samaritan Tour. Prima di arrivare sulle sponde del Lago Michigan, il Little Bastard armato di chitarra acustica e i suoi 2 giovani, semisconosciuti compagni di viaggio – la chicagoana Merritt Lear al violino, al mandolino e alla seconda voce; Mike Flynn alla fisarmonica e ai cori – si erano già esibiti fra piazze e parchi di Filadelfia, Cambridge (Massachusetts), Pittsburgh, Cleveland e Detroit, dove le forze di polizia li avevano accerchiati e guardati con sospetto temendo altri disordini in una città devastata dalla crisi economica e sempre potenzialmente esplosiva.

John Mellencamp

Poi sarebbe toccato a Cincinnati, ad Atlanta e a Nashville, prima dell’inevitabile chiusura a pochi chilometri da casa di John, a Bloomington in Indiana. Concerti acustici, per la gente e in mezzo alla gente. Come quando Woody Guthrie suonava gratis nei campi della California per i lavoratori. Come Bob Dylan con Pete Seeger e Theo Bikel a Greenwood, Mississippi, nel 1963. Come quando hippie e radicali si radunavano negli anni 60 a Washington Square, porta d’ingresso del Village newyorkese.

Si scusa con il pubblico vociante, Mellencamp, se il suono amplificato da minuscoli speaker rudimentali non è abbastanza potente da arrivare alle orecchie di tutti. «Ma», ribadisce, «oggi non ho niente da vendere o da promuovere. Sono qui solo per restituire qualcosa alla gente che è stata così gentile con me in questi 25 anni». Uscito in questi giorni senza molta grancassa pubblicitaria e arricchito da un bel documentario sul tour nell’edizione Cd + Dvd, The Good Samaritan Tour 2000 è un documento onesto e sincero di quella esibizione a Chicago di oltre 20 anni fa, quando il trio venne rinforzato da 2 pilastri della live band di Mellencamp, il fedelissimo Mike Wanchic all’altra chitarra e l’energica, spiritata Miriam Sturm al violino: spartano (anche nella copertina: John ha preso il brutto vizio di impoverirle ai minimi termini), senza abbellimenti, con una qualità di registrazione accettabile ma quasi da bootleg.

Lontano dalle megalopoli del music business, New York e Los Angeles, l’ex Puma tasta il polso al centro nevralgico del Paese, al Nord post industriale e al Sud spesso lasciato a se stesso, fedele allo spirito che ha animato la seconda parte della sua carriera: il John Cougar del mainstream rock da classifica è già diventato un cantastorie girovago sulle orme di Woody Guthrie, custode e divulgatore del grande American Songbook ma con un cuore (indebolito da un infarto subìto sul palco nel 1994) che ancora batte a ritmo di rock. Soprattutto quando riff e power chords sono al servizio di canzoni che calzano alla perfezione al contesto e al momento storico, come i 2 capisaldi del repertorio con cui decide di aprire e chiudere la scaletta: l’autobiografica ode alla provincia di Small Town e il Sogno Americano infranto di Pink Houses, riflettono l’orgoglio e l’amarezza di un figlio autentico, critico e appassionato degli States. Scaldano il cuore e fanno muovere il corpo anche in queste versioni “povere”, grezze e a basso volume, uniche riprese dal suo catalogo accanto a Key West Intermezzo (I Saw You First) che nel 1996 fu il suo ultimo singolo capace di raggiungere la Top 40 americana. Il resto è un juke-box di pezzi celeberrimi e brani oscuri in cui non potevano mancare Guthrie – la rustica, elegiaca Oklahoma Hills, oggi folk song ufficiale dello Stato – e Dylan, anche se All Along The Watchtower non è una delle cover più riuscite del set.

Americano tutto d’un pezzo ma non stupidamente nazionalista, John getta volentieri lo sguardo anche oltreoceano, omaggiando per ben 2 volte i Rolling Stones degli anni 60 con l’inno da strada e di rivolta di Street Fighting Man, perfetto per l’occasione; e la più antica e easy The Spider And The Fly: una vecchia b side che lo stesso Mick Jagger definì una volta «una combinazione tra il blues di Jimmy Reed e un testo da gruppo pop inglese». Un altro maestro delle 12 battute (in tinta gospel), Blind Willie Johnson, è l’autore della celebre e drammatica In My Time Of Dying (alias Jesus Make Up My Dying Bed) mentre il pubblico di Chicago accoglie con urla d’approvazione la menzione della sua città nel testo di Captain Bobby Stout, nota soprattutto nella versione della britannica Manfred Mann’s Earth Band ma ripresa dal repertorio della semidimenticata Jerry Hahn Brotherhood: una band che Mellencamp adora al punto da eseguire anche un altro suo brano, Early Bird Cafè, da sempre suonata dal vivo e finalmente pubblicata in una versione di studio 4 anni fa sull’album Sad Clowns & Hillbillies.

È un continuo gioco a rimpiattino fra i generi e le 2 sponde dell’Atlantico, quello di The Good Samaritan Tour, che a Dylan affianca il Donovan della dinamica Hey Gyp, in una versione che nonostante la voce fragile e incerta della Merritt evidenzia le sue esplicite origini blues e il debito nei riguardi di Memphis Minnie e Kansas Joe McCoy. Lo scozzese la pubblicò a metà anni 60 sul lato B di un 45 giri: stessa sorte toccata a Cut Across Shorty, che Eddie Cochran registrò nel 1960 poco prima di morire in seguito a un incidente stradale in Inghilterra. È diventata un classico del rock and roll a tinte country & western e spiega bene gli orizzonti culturali di Mellencamp, 20 anni fa come oggi.

Nella più pura tradizione folk la musica, per lui, è un continuum che si rigenera continuamente grazie alla trasmissione orale, alla condivisione, al dare e ricevere fra chi canta e chi ascolta, fra chi parte dai blocchi e chi raccoglie il testimone. Tutto diventa folk, musica del popolo che fotografa e racconta la vita, la politica e la società: in un’America che nel 2000 come nel 2021, ci dice Mellencamp, non è purtroppo tanto diversa da quella della Grande Depressione degli anni 30 del secolo scorso o dei turbolenti Sixties, un gorgo perverso e irrisolto di tensioni razziali, disoccupazione, disparità sociale e miseria diffusa.