È notizia ormai conclamata che in tempi pandemici John Cale abbia composto addirittura 80 brani (2 in meno delle sue 82 primavere). Di questi, 12 hanno decrittato nel 2023 quel Mercy inciso in collaborazione con Laurel Halo, Actress, Weyes Blood, Sylvan Esso, Animal Collective, TOKiMONSTA, Fat White Family e Tei Shi; altri 13 – cui vanno aggiunti, nell’edizione giapponese, Running Out e Invention Of Language – cadenzano POPtical Illusion (graficamente stilizzato in POPtical uoᴉsnllI), 18° album in carriera che il gallese ha preferito giocarsi in solitudine suonando il pianoforte, l’organo, i sintetizzatori, il basso, la batteria e la chitarra, seppur riservando sporadici ma fondamentali interventi a 2 collaboratori di lunga data: Dustin Boyer (chitarra elettrica, chitarra acustica) e Nita Scott (tastiere, basso, batteria).
Come per Mercy, ci tengo a sottolinearlo, il punto di partenza del nuovo disco è stata «l’enorme tranche di canzoni», ha dichiarato John Cale al quotidiano britannico The Guardian. «Il lockdown ha dettato in un certo senso ciò che stava succedendo: quindi la mia rabbia (in particolare dettata da ragioni politiche) si è manifestata con una certa regolarità. Non ero fisicamente preoccupato del covid, ma c’erano alcune cose che mi davano fastidio. Di conseguenza, ho iniziato a scrivere pezzi con molta più aggressività rispetto al recente passato. Ma era un genere diverso di aggressività: una sorta d’aggressività romantica».
John Cale
© Madeline McManus
Se Mercy fuggiva come la peste ogni possibile declinazione rock per concedere spazio a melodici flussi ambient e a urticanti, claustrofobici passaggi dark, le “illusioni poptiche ” dell’ex Velvet Underground denotano una maggior fruibilità d’insieme che si rivela, appunto, pop; una sorta di speranzosa luce in fondo al tunnel che non deve però illuderci che il peggio sia passato in questo sciagurato, insidiosissimo abbrivio di 21° secolo.
Queste tracce, in particolare, daranno senz’altro soddisfazione a chi, come il sottoscritto, segue Cale da una vita: dalla viola di bordone sperimentata coi Velvet all’art rock, fino al trip-hop e all’infatuazione per l’electro-soul. Quindi God Made Me Do It (Don’t Ask Me Again) è il prologo ideale per un’incisione come questa, in virtù dell’avvolgente melodia che di tanto in tanto si fa increspare dal noise facendo riaffiorare alla memoria l’estetizzante Hanky Panky Nohow (dall’album Paris 1919 del 1973). E per ribadire il concetto, c’è l’orecchiabilità allo zenith di Davies And Wales che si connette alle migliori ballate caleiane : in particolare Mr. Wilson e Talking It All Away, da Slow Dazzle (1975).
Clima ovattato e insieme rumorista per Calling You Out, composizione chiamata a seguire passo passo un turbinìo di voci che si reitera all’infinito per poi fare da preludio a Edge Of Reason. Qui, il denso e pastoso timbro vocale di Cale è come per incanto lo stesso di 50 anni fa: quello, per capirci, che ha reso immortali le melodie di Cable Hogue e di (I Keep A) Close Watch (Helen Of Troy, 1975). Si passa ad I’m Angry, eppure l’incazzatura evapora fino ad annullarsi in un fluire di suoni ai confini dell’inimitabile Music For A New Society (1982). Si coglie invece con How We See The Light l’essenza del miglior Cale, che padroneggia la melodia pop come nessun altro; e che a questi livelli non smetteresti mai d’ascoltare.
Tutt’altra musica in Company Commander: voce filtrata, incedere marziale, elettronica in loop. Idem con il ritmo in levare, il passo felpato e il trip-hop di Setting Fires, ma poi è il furore di Shark-Shark a divorarsi la scena con un cacofonico muro del suono inframmezzato da citazioni ai Velvet Underground di Sister Ray e di White Light/White Heat, passando il testimone a Funkball The Brewster: esattamente dove la musica si fa cavernosa, oscura, disturbante. Una volta bypassato il pop da manuale che dà un senso preciso a All To The Good, è tempo d’acquietarsi ancora: cogliendo al volo le reiterazioni pianistiche e l’elettronica orchestrale di Laughing In My Sleep; accogliendo il canto baritonale di un inappuntabile Cale, che nell’indiscussa bellezza di There Will Be No River asseconda la ripetitività quasi glassiana del suo strumento.
«Con tutto il tumulto che c’era quando ho concretizzato POPtical Illusion, sono lieto d’aver assaporato anche solo qualche attimo di riflessione. E di gratitudine». Semmai siamo noi a essere grati con te, sempiterno John Cale che non sbagli mai un disco.