«È una vecchia storia. 1975, una delle prime serate che ho fatto nei locali. Una serata da dimenticare: mi si avvicina un tizio dicendomi che sembro la statua di Garibaldi. Da allora tutti mi chiamano DJ Gari, l’abbreviazione di Garibaldi».
Alessandro Critelli, parmigiano, alla consolle DJ Gari, vi aspetta col suo DJ Set decisamente black domani sera, sabato 16 luglio, al Joevinyle Showcase – Music in the Street.
È impresa ardua trovare notizie che ti riguardino.
«Semplicemente perché non mi conosce nessuno!».
Eppure è sterminato l’elenco di locali dove ti sei esibito…
«Tranne l’aver fatto per qualche stagione il dj resident all’Astrolabio di Parma, il mio approccio al deejaying ha sempre rifiutato l’omologazione, il già sentito, la ripetitività».
Dicono che tu sia nato anzitutto come collezionista di musica che invitava gli amici a casa sua per fargli ascoltare un po’ di dischi.
«Avevo una taverna e con quegli amici che poi sono diventati tutti musicisti o hanno lavorato nelle radio, allestivo questa piccola discoteca, chiamata Ostia Ricca, con tanto di luci, 2 piatti e via così, improvvisando. A un certo punto si è scatenato il passaparola: arrivava gente mai vista prima da Modena, addirittura da Milano».
Avevi già in programma di fare il dj?
«Era il mio grande sogno, tanto da aver frequentato da ragazzino 2 corsi con Robi Bonardi, che è stato tra i fondatori dell’Associazione Italiana Disc Jockey».
Era a 33 o a 45 giri, il 1° vinile che hai comprato?
«A 45 giri, nel 1973: Anikana-o dei j.e.t., che poi si sono trasformati in Matia Bazar. L’hanno ripreso i Kongas, prodotti da Cerrone, facendone una hit a livello mondiale».
A metà anni 70 c’è stato il boom della discomusic con Barry White, Donna Summer, Gloria Gaynor, i Bee Gees di Saturday Night Fever… Utilizzavi anche quel repertorio nelle tue serate?
«L’ho fatto qualche anno dopo. Mi ero perlopiù posizionato sulla classica black music: James Brown, Marvin Gaye, Rufus Thomas… ».
C’è una tracklist a orientare i tuoi DJ Set?
«In genere improvviso spesso, correndo anche il rischio di sbagliare. La black music che mi piace selezionare, soprattutto quella che va dal 1970 al 1980, è pressochè sconosciuta: gruppi o cantanti che in carriera hanno magari inciso solo un 45 giri o un mix».
Utilizzi esclusivamente vinili?
«È una questione di comodità: un conto è doversi spostare con un borsone stracolmo di dischi, un conto è farlo con i cd. Detto ciò, quando suono qualcosa mi vengono i brividi solo se lo faccio con i vinili. Penso per esempio a una certa dance americana su mix da 12 pollici che ho acquistato nei miei innumerevoli viaggi oltreoceano. Viaggi che mi hanno anche dato l’opportunità, in particolare a Las Vegas, di ascoltare dal vivo Michael Jackson, i Four Tops e i Temptations, oltre al funk e al rap di Zapp & Roger che si distinguevano per l’uso frequente del vocoder».
Per quanto riguarda le voci femminili, quali si meritano un posto di riguardo nei tuoi DJ Set?
«Utilizzo spesso brani dai primi dischi di Amanda Lear, Debbie Harry dei Blondie che canta Rapture, Nicolette Larson che intona Lotta Love».
4 dischi del cuore, non 1 di più né 1 di meno.
«Il doppio album Sex Machine di James Brown, metà in studio e metà dal vivo; ribadisco Lotta Love di Nicolette Larson; il singolo 12 pollici di Don’t Let Me Be Misunderstood dei Santa Esmeralda: in particolare la seconda parte, che ha degli arrangiamenti spettacolari; Black Byrd, del trombettista jazz Donald Byrd».