“Jessica Pratt è una vecchia ragazza di Hollywood ”, titolava qualche mese fa la rivista femminile statunitense The Cut dedicando un articolo/intervista alla 37enne cantautrice di Los Angeles che lo scorso mese di maggio ha dato alle stampe il suo 4° album solista. Un’opera intrigante e dal fascino ipnotico che vale la pena di recuperare e approfondire, ora che la musicista californiana è impegnata in un tour europeo (niente date in Italia, purtroppo) e che sui blog, sui siti e sulle riviste specializzate cominciano a spuntare le liste dei migliori dischi dell’anno (il prestigioso mensile inglese Uncut l’ha inclusa nella sua Top 5).
La City of Angels è il posto in cui vive e di cui si nutre l’immaginario della biondissima cantante, spesso nerovestita con un look che s’ispira alle star della Hollywood degli anni 30 quanto alle muse della Factory newyorkese di Andy Warhol: Nico e Edie Sedgwick, Candy Darling e Holly Woodlawn (da lì arriva il suo vezzo di contornare con l’eyeliner la parte inferiore delle palpebre). Di LA Jessica ama le luci e le ombre, i contrasti fra il sole, i boulevard, le spiagge, le palme, gli agrumeti e i vicoli bui e sudici in cui si muovono personaggi di dubbia reputazione e si consumano storie sordide.
© Samuel Hess
Per Here In The Pitch, in particolare, ha fatto una full immersion nella mitologia e nella storia della metropoli californiana e dei suoi dintorni: prendendo spunto da un viaggio (il suo 1° in assoluto) nei deserti lunari della Death Valley; dalla lettura dei saggi di Mike Davies che di Los Angeles raccontano i tumulti degli anni 60 e il possibile futuro (Set The Night On Fire: LA In The Sixties, Città di quarzo); dai libri che hanno narrato le vicende della Manson Family e la disintegrazione del sogno hippie; dalla visione di film come Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen o il biopic Love & Mercy su Brian Wilson dei Beach Boys, i cui dischi – accanto a quelli di Judy Garland e di Burt Bacharach, di Scott Walker e di artisti jazz quali Steve Kuhn e la norvegese Karin Krog – hanno girato sul suo piatto mentre scriveva e registrava i nuovi pezzi, trovando un terreno comune e una sintonia profonda con un altro grande fan dei ragazzi da spiaggia: il fonico e musicista Al Carlson.
In testa, entrambi, avevano i suoni dell’immortale Pet Sounds ma anche di Lp successivi come Friends; la capacità di quei dischi di far percepire all’ascolto anche la “densità del silenzio ” e gli ambienti in cui hanno preso forma. L’esile e trasognato neo folk di Jessica si è così irrobustito e ha preso più peso, anche se il suo sound rimane spettrale, diafano come la sua pelle. In queste 8 canzoni, più 1 breve brano strumentale (27 minuti e 19 secondi di durata, poco più di un “Extended Play ”) Pratt ha materializzato una sua personale, onirica visione del pop americano degli anni 60, quando le melodie di Wilson e di Bacharach dominavano le classifiche e ovunque impazzava la moda della bossa nova d’importazione brasiliana.
L’eleganza sinuosa e la saudade delle canzoni di Antônio Carlos Jobim, di João e di Astrud Gilberto, avvolgono titoli come Better Hate (sottolineata da un sax baritono in filigrana), Get Your Head Out (con refoli di organo e di piano elettrico) e By Hook Or By Crook, dove non a caso è onnipresente il sapiente e misurato tocco percussivo di Mauro Refosco, da tanti anni elemento insostituibile delle band di David Byrne ma anche collaboratore, dal vivo, dei Red Hot Chili Peppers; mentre l’iniziale Life Is – aperta da un dialogo fra batteria e percussioni, mentre alla chitarra si fa spazio con discrezione Ryley Walker, figura di culto dell’avant folk contemporaneo – suona un po’ come un classico dimenticato di Doc Pomus o un Phil Spector despectorizzato, un Wall Of Sound minimalista (insomma, una contraddizione in termini) con tanto di glockenspiel ma privo di grandeur.
Intanto World On A String evoca con altrettanta, soave delicatezza certa musica da film degli anni 60; Nowhere It Was profuma di space age e sembra sospesa su una nuvola, mentre in coda al disco Empires Never Know e The Last Year contornano di note di pianoforte le silhouette filiformi delle canzoni di Jessica, dove tutto ruota di solito intorno a una chitarra acustica strimpellata in maniera spiccia ed essenziale e a quella sua voce quasi infantile e spesso sussurrata, che il riverbero rende ancora più distante ed emaciata.
Anche in Here In The Pitch la sua musica sembra spesso nascere da uno stato di dormiveglia o, come lei stessa afferma, da qualche sogno a occhi aperti: sogni che a volte si trasformano in incubi e in cui prendono forma anime nere e malvagie, la cui presenza è un tema ricorrente del disco insieme «alla spavalderia, alla negazione della realtà, al non sentirsi all’altezza, al confrontarsi con il fallimento o addirittura con la propria morte» (anche se il finale di The Last Year sembrerebbe offrire, nell’amore, un risarcimento e una risoluzione positiva). Pensieri e turbamenti sono spesso veicolati da melodie tenere e delicate, perché in questo album poco o nulla è ciò che sembra a prima vista: forse non solo per questioni di budget, gli arrangiamenti lasciano molto spazio al più versatile e infingardo degli strumenti, il mellotron, che nelle mani di diversi musicisti replica il suono di archi, fiati, trombe, clavicembali, vibrafoni, corni francesi e persino di chitarre acustiche, affiancato a quello di una ridotta strumentazione rock “al naturale ”: il tutto avvolto in un velo che ne attutisce volutamente l’impatto sonoro.
Here In The Pitch, ha spiegato Pratt, è il risultato di un periodo in cui nella sua vita è riuscita ad ancorarsi a più solide certezze; e per questo il disco suona più ancorato a terra e tangibile rispetto al “miasma sonoro ” che caratterizzava i suoi album precedenti. Eppure quel suono gorgogliante e amniotico da “musica intrauterina ” (come lo ha efficacemente definito Emma Madden su Stereogum) non se n’è andato del tutto; in questi schizzi impressionisti in cui “le ombre strisciano sui muri ” e si annidano “paura e altri sentimenti negativi ”, nonostante i temi amorosi e l’evocazione di figure femminili di forte personalità. Dietro quell’innocenza macchiata dal peccato, si nasconde sempre un filo d’inquietudine e un senso di pericolo incombente; dietro quel suono nostalgico e d’antan, un sentimento contemporaneo; dietro quella trasparenza, una coltre di smog come quella che incombe sui cieli di una Los Angeles dark, cinematografica e ricca di storia musicale che in Jessica Pratt trova una musa meno glamour, meno sfacciata ma non meno affascinante di Lana Del Rey.
E se Here In The Pitch può entrare a buon diritto nell’elenco dei migliori dischi del 2024, è lei stessa a svelarcene il segreto: «Una delle cose più intriganti del fare musica è accennare a cose che non ci sono ma che puoi sentire nella tua mente». Ancora una volta less is more, il non detto accende l’immaginazione e il mistero scatena la fantasia.