Chi l’ha visto in azione dal vivo o in video, sa che sul palco Jeff Pevar è uno di quei musicisti capaci di rubare la scena. Di attirare verso di sé l’attenzione, gli sguardi e le orecchie del pubblico anche quando si esibisce come sideman di qualcun altro. Un chitarrista formidabile e versatile, energicamente votato al rock e al blues elettrico ma anche raffinato nel fraseggio che spesso si colora di fusion.

66 anni, è anche un eccellente cantante, polistrumentista e compositore con un curriculum da fare impallidire chiunque: Rickie Lee Jones e l’orchestra di Ray Charles, James Taylor e Donald Fagen, Marc Cohn e Joe Cocker, Phil Lesh & Friends e Bette Midler, CSN e David Crosby nelle sue molteplici incarnazioni, dai CPR alla Sky Trails Band. Un camaleonte che oggi si divide tra molteplici impegni, reinterpretando i classici del rock con gli Zepdrix (musiche di Led Zeppelin e Jimi Hendrix) e con il Gilmour Project (insieme a musicisti del giro Tubes, Todd Rundgren e Grateful Dead), esibendosi con una band oppure in coppia con la moglie, la cantante, pittrice e scultrice Inger Nova Jorgensen.

In duo, con le chitarre acustiche ed elettriche di Pevar e le 2 voci sostenute da loop e sovraincisioni di parti ritmiche preregistrate dallo stesso Jeff nel suo home studio in Oregon, si stanno esibendo in questi giorni anche in Italia, protagonisti di una dozzina di date in cui oltre a loro composizioni originali propongono cover di artisti quali Bob Dylan, Bonnie Raitt, Stevie Wonder, Neil Young, Led Zeppelin, Temptations e, ovviamente, David Crosby.

Jeff Pevar

Rock, funk, blues, soul, musica acustica, Americana. I concerti di questi giorni rispecchiano l’ampiezza senza confini dei vostri gusti musicali.
(JP) «Nutriamo entrambi interesse per tanti tipi di musica. Già prima che ci incontrassimo Inger era una musicista, aveva fatto parte di diverse band e aveva cantato in un coro. Io stesso ho suonato in gruppi dagli stili molto differenti fra loro, passando dal country alla fusion jazz, dal rock al blues. Ci piacciono cose simili e abbiamo un sacco di canzoni tra cui scegliere che cosa suonare».

Cosicché ogni sera la scaletta è diversa?
(IN) «Mischiamo un po’ le cose, ma certi pezzi vengono riproposti stabilmente perché funzionano particolarmente bene. Esibendoci in duo, a inizio serata proponiamo anche un repertorio più folk e tranquillo. Quel che suoniamo dipende anche dalla situazione, dalla presenza di una band o di altri musicisti sul palco».

(JP) «In un paio di questi concerti italiani rendiamo omaggio alla musica di David Crosby e in quei casi, oltre ad Almost Cut My Hair e a Little Blind Fish, eseguiamo anche canzoni come Homeward Through The Haze o It’s All Coming Back To Me Now, un pezzo che io stesso ho contribuito a scrivere. Una sera possiamo esibirci in acustico, la successiva proporci in modo più aggressivo. In America, da soli e con i nostri loop, abbiamo aperto per formazioni rock come quella di Joan Jett e il pubblico è sembrato gradire molto».

Riproporre le canzoni dei Led Zeppelin, di Jimi Hendrix, di David Gilmour con i Pink Floyd o dei Grateful Dead, è un tentativo di reinventare quello che oggi chiamiamo classic rock?
(JP) «Sono un musicista che si guadagna da vivere suonando. Cosicché di volta in volta mi si presentano delle opportunità, squilla il telefono e qualcuno mi chiede se sono interessato a fare questo o quello. Con il progetto Jazz Is Dead, un po’ di anni fa, ho avuto la possibilità di suonare con alcuni dei miei idoli: Alphonso Johnson dei Weather Report o T Lavitz e Rod Morgenstein dei Dixie Dregs, musicisti che molto tempo prima ascoltavo pensando che mai avrei potuto stare a fianco di gente di quel livello. 10 anni dopo mi arrivò una telefonata e mi chiesero se ero interessato a fare musica con loro. “Eccomi”, dissi, “sono pronto per il provino”. “Nessun provino”, mi risposero. “Se ti interessa, sei dei nostri”. Al cospetto di musicisti che ritenevo più evoluti di me, ho cercato di riarrangiare la musica dei Grateful Dead pensandola per un ensemble di interpreti esclusivamente strumentali, cambiando i groove e usando la slide per riprodurne le melodie. Ho tentato di conservarne le qualità evocative e di adattarla al mio stile, dato che io non suono alla velocità supersonica dei Dixie Dregs. Non è quello il mio campo: cerco di suonare frasi melodiche e di renderle appetibili a chi mi ascolta. Con i Jazz Is Dead non solo mi è stato richiesto di alzare il livello delle mie abilità tecniche ma anche di diventare, con la mia chitarra, uno dei protagonisti di una musica basata sull’improvvisazione. Per me è stato come entrare in un parco giochi e quell’esperienza ha avuto un profondo impatto sulla mia musica. Quando interpreti i brani di un cantautore, invece, devi restare più fedele al formato originale del brano».

Il chitarrista americano in concerto con la moglie Inger Nova Jorgensen
© Newman Images

Infatti una delle cose che più colpisce delle vostre esibizioni è che al di là del virtuosismo e dello spazio concesso agli assoli, al centro della performance resta la canzone.
(IN) «Dipende anche dal fatto che quando usiamo i loop la struttura del set è in qualche modo prestabilita: non abbiamo a fianco una band a cui possiamo chiedere di continuare a suonare. Con altri musicisti sul palco, Jeff è capace di continuare a improvvisare tutta la notte…».

(JP) «Diciamo che quando sono il bandleader di un gruppo posso comunicare con gli altri musicisti e guidarli durante l’esecuzione, magari cambiando improvvisamente l’arrangiamento del pezzo. Basta non preoccuparsene, rilassarsi e seguire quello che si ha in mente. L’altra sera, al Jazz Club di Biella, quando sul palco è salito con noi Alex Gariazzo (chitarrista e cantante della Treves Blues Band impegnato a sua volta in molteplici progetti musicali, ndr) e ci siamo messi a suonare Love Me Like A Man, un blues dal repertorio di Bonnie Raitt, ho saltato volontariamente una strofa cantata. Sapevo che la base preregistrata non sarebbe durata abbastanza a lungo per improvvisare e così mi sono detto: iniziamo a dialogare con le nostre chitarre ancora prima che parta la base. Sono un grande fan dell’improvvisazione. Mi piace l’idea di non dovere sottostare a delle regole, creare musica del momento e sul momento. Lo facciamo ogni sera: abbiamo un canovaccio, ma Inga canta ogni volta in modo diverso e io suono in maniera differente: la canzone diventa un veicolo per esprimere la nostra sensibilità artistica. Un grande classico è quel che è e non può essere ricreato. Ma darne una propria interpretazione è un modo di onorare tanto il processo creativo originale che la tua identità artistica, la tua visione delle cose».

Come arrivò quella prima chiamata di Rickie Lee Jones che ti ha catapultato nel mondo della grande musica?
(JP) «Sono nato in Connecticut e uno dei primi musicisti con cui mi sono ritrovato a suonare è stato un amico di famiglia e tastierista di qualche anno più giovane di me, Michael Ruff. Nel 1983, quando si era già affermato come bandleader, mi propose di unirmi al gruppo che avrebbe accompagnato in tour la Jones per promuovere il suo 2° album, Pirates. Mi telefonò e mi disse che se avessi preso un aereo al volo avrebbe fatto in modo di farmi sostenere un provino. Avevo 26 anni, ero nervosissimo, se ne accorse anche lui e non feci una bella figura. Ma Michael voleva con sé nella band quel ragazzo di casa, quella specie di fratello maggiore. Dormivo nel suo appartamento e mi disse di restare in città incitandomi a continuare a lavorare sulle canzoni. Qualche giorno dopo mi informò che con tutta la band avremmo iniziato a provare il materiale. A quel punto mi sentii molto più tranquillo. Non ricordo se fosse quel giorno o il successivo… ma a un certo punto mentre suono la parte ritmica di Chuck E’s In Love si apre la porta, entra Rickie Lee, imbraccia una chitarra e mi viene sempre più vicino fino a sfiorarmi il viso con il suo. Tra noi si era creato immediatamente un contatto fisico e spirituale; mi resi conto in quel momento che dovevo mettere da parte tutte le mie paure e le mie insicurezze».

Con la prima Statocaster nel 1972

Anni dopo incontrasti Crosby mentre aprivi per lui, Stills e Nash come chitarrista nella band di Marc Cohn.
(JP) «Fu lui ad avvicinarmi, dicendomi che mi avevano notato e che sarei stato perfetto per il gruppo quando Stephen se ne sarebbe andato. David mi raccontò che lui e Nash avevano scritto molte canzoni che volevano proporre in pubblico e che in quel momento Stills non sembrava essere così affamato di musica. Non so se fosse vero, ma sosteneva che non toccasse neanche la chitarra fra un tour e l’altro mentre ogni artista ha bisogno di lucidare i suoi strumenti di lavoro se non vuole che arrugginiscano. Io sono un grandissimo fan di Stephen, ho avuto modo di suonare con lui a casa sua ed è stato prodigo di complimenti nei miei confronti. Abbiamo influenze simili: entrambi amiamo il blues e il mio modo di suonare deve molto al suo. Io sono un autodidatta, un prodotto di tutto ciò che ho ascoltato in vita mia; e quando ho sentito Stills per la prima volta, ho voluto subito emulare quel suo modo meraviglioso di esprimersi. Lo fa con semplicità, non è un virtuoso dello strumento. È un bluesman, una persona che con la musica sa comunicare in profondità. All’apice della sua carriera non c’era nessuno come lui».

Come ci si adatta a suonare con musicisti così diversi tra loro? Bisogna cambiare approccio, tecnica, disposizione mentale?
(JP) «Ogni esperienza è servita a sgrezzarmi e a modellarmi. Quando mi sono reso conto che la musica era la mia vera passione, ho immediatamente abbandonato il liceo. Un giorno, arrivando a scuola, vidi in aula una rana conficcata su un piatto e mi dissi che non era quello ciò che mi interessava nella vita. La musica è la mia passione, non l’algebra o i numeri. Passare dai piccoli club alle sale da concerto in cui si esibiva Rickie Lee Jones fu un’esperienza fantastica. Era il mio 1° tour e suonammo in un posto incredibile come Red Rocks in Colorado, che 2 o 3 anni prima avevo visitato con mia madre e mio fratello dicendomi che un giorno su quel palco ci sarei salito anch’io. Lasciai il liceo e il tipo di istruzione che volevano impartirmi per procurarmi da me quella di cui sentivo veramente il bisogno. Non sono così bravo a leggere uno spartito, non ho mai davvero imparato a scrivere la musica. Ma sono lesto d’orecchio, imparo rapidamente e in testa mi faccio subito un’idea di quel che devo suonare. Se mi metti davanti una pagina zeppa di notazioni musicali, ti accorgi subito che non sono la persona giusta per te. Ma se cerchi qualcuno capace di dare una sua interpretazione mettendoci il cuore, allora sì: è quello che ho imparato a fare. Ray Charles capì in fretta che ero in grado di suonare il blues, tanto che un giorno il suo bandleader, con il suo vocione roco e profondo, mi disse “ehi, al vecchio piaci! ”. Nei concerti Ray includeva sempre dei pezzi blues in cui potessi intervenire anch’io, mi mettevo a suonare delle cose piuttosto semplici e lui, tutto soddisfatto, reagiva dicendomi “sei un ragazzino impertinente! ”. Rendermi conto di poter suscitare delle emozioni in un maestro come lui, è stata una vera rivelazione. Ho potuto farmi da me la mia istruzione, seguire in autonomia i miei master musicali: con Rickie e con Ray Charles; e poi con Joe Cocker, con Crosby, Stills & Nash, con Bette Midler. La storia è andata avanti, e ogni volta è stato come trovarmi a sfogliare un’enciclopedia zeppa di possibilità diverse».

Nel 1989 con la Ray Charles Orchestra (primo da sinistra)

Con David Crosby hai creato il sodalizio più famoso e duraturo. Come trovaste un terreno comune, un linguaggio da condividere?
(JP) «Questione di chimica, di alchimìa. Quel qualcosa che ti mette a contatto con un’altra persona sul piano spirituale o musicale. È difficile definire a parole perché una cosa funziona e l’altra no. In me David ha sentito evidentemente qualcosa che aveva acceso il suo interesse. È la stessa cosa che è successa a me quando ho sentito suonare Alex (Gariazzo) per la prima volta. Mi è bastata una nota per capire che non è solo un bravo chitarrista, ma lui stesso un maestro dello strumento. Anche lui ha dentro di sé una enciclopedia musicale, sa suonare il blues ma anche in fingerstyle e ha gusto per la melodia. A volte, suonando con qualcuno, si crea una sinergia speciale, qualcosa di più grande delle sue singole componenti. Ho riscoperto di recente alcuni video in cui sono sul palco con Crosby e Nash: si vede Graham rivolgersi a David con un enorme sorriso che esprime meraviglia e soddisfazione per quello che stiamo facendo. Rivedere Ray Charles o David Crosby emozionarsi mentre suono con loro, mi sembra ancora oggi un’esperienza surreale».

Con CPR, così come con Crosby & Nash, hai avuto modo di contribuire anche alla composizione, alla scrittura delle canzoni.
(JP) «Sì, in pezzi come Little Blind Fish che riprendo negli show di questi giorni. O come Jesus Of Rio, che ho scritto con Graham e a cui James Taylor ha prestato la sua voce. Torno con la mente a quando ascoltai per la prima volta il 1° album di Crosby, Stills & Nash: un’esperienza che ha cambiato la vita, a me come a tantissime altre persone. Da quel momento in poi David e Graham hanno continuato a spingersi oltre, a cercare nuovi modi d’espressione. Essere stato testimone oculare e coprotagonista della loro interazione, così come dell’incontro di Crosby col suo figlio 30enne James Raymond, mi sembra ancora incredibile, come avere vissuto in un film. Quando si instaura una relazione a 3 si creano equilibri, dinamiche e combinazioni particolari. A volte, mentre incidevamo il 1° album dei CPR nello studio di Jackson Browne, David cedeva alla stanchezza e si addormentava sul divano. Io e James componemmo insieme le parti corali di Somehow She Knew mentre lui dormiva… Quando si risvegliò e le ascoltò ci trasmise tutta la sua eccitazione».

Quale ricordo particolare ti resta di lui?
(JP) «Come dico spesso, la cosa interessante di Crosby è che conteneva dentro di sé tante persone diverse. C’era il suo lato divertente, la parte dolce e affettuosa del suo carattere. Quella di un bambino cresciuto che esprimeva la sua meraviglia spalancando gli occhi e sfoderando sorrisi a tutta dentatura come un gatto del Cheshire. Lo percepivi anche quando suonava: quando si entusiasmava, gli occhi gli scintillavano e non riusciva a trattenere la sua esuberanza. E poi c’erano i momenti in cui sfogava la sua rabbia repressa… Chiunque, quando vive un grande successo in età molto giovane, cambia carattere e prospettiva. Molti trovano difficile gestire quella improvvisa responsabilità, trasformano le loro insicurezze in uno scudo che indossano per mostrarsi forti anche quando dentro di sé si sentono fragili. Se sei una persona normale e vai fuori dai binari, ci pensano tuo padre o il tuo migliore amico a dirti che stai sbagliando e a suggerirti di non farlo mai più. Se sei una star, è come se nel tuo processo di crescita verso l’età adulta avessi saltato alcune tappe e diventa facile, a volte, mostrarsi insinceri, arroganti o volubili. Ne sono stato testimone, in qualche occasione: ho voluto un gran bene a David e continuo a volergliene, con me si è comportato in modo meraviglioso. Ma quando lo vedevo nervoso e arrabbiato mi tenevo a distanza e aspettavo che le acque si calmassero. Poi ci si rimetteva a parlare, lui si scusava del suo comportamento e tutto tornava come prima. Ancora oggi per me è molto difficile capire la vera portata della sua perdita, considerando che per tanto tempo siamo stati così vicini. A un certo punto aveva preso le distanze da me e altrettanto avevo fatto io, ma questa è la vita. Avevo altri progetti musicali da seguire, avevo lasciato la California per andare a vivere con Inger in Oregon. Ognuno deve trovare la sua strada, si chiudono capitoli per aprirne degli altri. Sentivo anch’io di avere altre priorità, il desiderio di suonare con altri musicisti oltre che con lui. E poi, appena prima che morisse, ho trovato sul mio telefono un suo messaggio meraviglioso… Nel frattempo sono rimasto in contatto con Nash, ci scriviamo: gli ho voluto dire quanto la musica che abbiamo fatto insieme abbia significato per me e mi ha risposto di avere a cuore la nostra amicizia. Cerco di mantenere vivi i miei contatti, di tenere aperti i canali di comunicazione. Non è un problema, per me, esternare il mio apprezzamento nei confronti delle persone».

Con David Crosby e James Raymond (CPR)

Nel disco che hai registrato con Crosby & Nash nel 2004 c’era una canzone dedicata a Michael Hedges. È stato uno dei tuoi chitarristi di riferimento? Ce ne sono altri?
(JP) «Sia io sia Inger eravamo suoi fan…».

(IN) «Stava a Mendocino, in California, vicino al posto in cui all’epoca vivevo io. Per me e i miei amici, quando avevo poco più di 20 anni, era il top, lo ascoltavamo in continuazione. Almeno 10 anni prima di incontrare Jeff ascoltavo anche i CPR. Grazie ai miei genitori che la amavano, sono cresciuta con la musica di CSN. I CPR erano un gruppo decisamente più di nicchia ma in California del Nord, dove frequentavo l’università, certi miei amici che avevano messo su una band ne suonavano le canzoni».

(JP) «Potrei citarne almeno 20, di chitarristi che mi hanno ispirato. Jimi Hendrix, Jeff Beck, Ry Cooder, Robben Ford, Larry Carlton, Lowell George… ma anche Jaco Pastorius, dato che come lui anch’io suono il basso fretless, ad esempio nel mio disco solista From The Core in cui ho avuto come ospite Jon Anderson degli Yes. Però non ho un artista preferito, sono tanti quelli che mi hanno influenzato».

Dal vivo in Italia state presentando diverse canzoni inedite. Le scrivete insieme? Come interagite fra di voi?
(IN) «Spesso sono io a trascrivere un testo su un foglio, molte volte le parole e una qualche idea melodica mi vengono in mente mentre mi trovo nel mio studio a dipingere o a scolpire. A quel punto corro giù in casa e dico “ok, Jeff, dobbiamo subito mettere giù questa canzone! ”. Altre volte tutto è più prestabilito e ci sediamo insieme con l’idea di comporre qualcosa. Magari Jeff mi fa sentire una parte di chitarra da cui mi sento particolarmente ispirata, me la registro sul telefono e poi inizio a scrivere delle parole che mi sembrano adatte».

(JP) «È quasi sempre lei a mettere in moto il processo, ad avere la prima ispirazione. Io mi sento spesso intimidito dalla scrittura, ho sempre l’impressione di non essere all’altezza ed è Inger a dirmi che quel che ho composto funziona, a convincermi della sua bontà. È stata una sua idea anche quella di venire qui a tenere concerti in duo. Se sei abituato ad andare in giro in tour pensando solo a suonare, a tornare in albergo e a incassare i soldi mentre qualcun altro provvede a tutto il resto, ti chiedi se sia il caso di fare una cosa del genere. E invece è un’esperienza magnifica e intensa, indescrivibile a parole, suonare in piccoli locali e vedere la gioia sui volti della gente. La musica ti esce dal corpo e quel che ti ritorna è l’energia di chi ti sta ascoltando. Un ciclo di onde in movimento. Ogni giorno ogni performance, ogni momento, è diverso dagli altri e ogni volta è un grande onore condividere queste esperienze».

(IN) «Ho insistito, è vero, ma con gentilezza. E molto si deve al nostro amico Francesco Lucarelli che suona nei Rawstars, che gestisce la fanzine Wooden Nickel e che su Crosby ha appena pubblicato un libro intitolato Music Is Love. Tutto è nato negli anni pre pandemìa, quando Jeff stava per venire in tour in Italia con David e ci siamo detti che avremmo potuto aggiungerci in coda qualche show in duo. È stato bellissimo, in questi giorni, visitare tutte queste città in cui non conoscevamo quasi nessuno e farci immediatamente un sacco di nuovi amici. La musica fa incontrare le persone come nessuna altra cosa al mondo. Vogliamo ripetere l’esperienza, sviluppare qui da voi una presenza più costante. Magari tornare con altri musicisti e suonare anche in posti più grandi».

Come vi ponete, da artisti indipendenti, rispetto alla evoluzione – o involuzione – del mercato discografico e ai nuovi modi di ascoltare musica?
(IN) «Io ho una carriera parallela come pittrice e scultrice: in casa abbiamo uno studio di registrazione in cui produciamo musica per artisti di ogni genere ma anche un locale, la Stone House, dove nel momento in cui non era possibile spostarsi abbiamo cominciato a organizzare una serie di livestream. Con l’avvento delle piattaforme come Spotify, è diventato molto difficile vendere la propria musica e pensare di sostenersi economicamente solo suonando in piccoli club o andando in giro in tour, tanto che negli States molti musicisti hanno smesso di farlo e si sono messi a fare altri lavori».

(JP) «Ieri un giovane musicista mi ha chiesto che cosa dovrebbe aspettarsi da una carriera musicale. La mia risposta è che chiunque ha la possibilità di crearsi la propria storia, il proprio film. Può sempre capitare di pubblicare musica su YouTube e che la cosa ti esploda fra le mani, procurandoti un sacco di denaro e mille possibilità. Ma la cosa più importante è seguire il proprio cuore: accettare consigli ma non permettere mai che sia qualcun altro a decidere la tua strada. Il vissuto di altri non può mai essere identico al tuo, devi convincerti che sei in grado di crearti la tua realtà e fare in modo che nessuno ti scoraggi o metta in dubbio le tue convinzioni. Come dei magneti, possiamo attrarre verso di noi le opportunità, fare in modo che altri finiscano nella nostra orbita, rispecchiarci gli uni negli altri e incoraggiarci a vicenda. I miracoli possono accadere, le persone possono realizzare i loro sogni e i loro desideri. Molto più di quanto siamo abituati a credere».