Fra quelli del Britpop anni 90 è stato colui che non ha perso tempo a scazzarsi come i fratelli Gallagher e tantomeno a ingaggiare duelli del tipo Oasis versus Blur, neanche fossero i Beatles contro i Rolling Stones. Oltre a essere di ben altra levatura intellettuale rispetto a Damon Albarn, Liam e Noel Gallagher, Jarvis Cocker da Sheffield, classe 1963, sono convinto che fra i britpopper sia stato il più genialoide: non foss’altro che per il mood cantautorale devoto a Scott Walker e il repertorio glam oriented snocciolato con i Pulp e spalmato in almeno 3 dischi davvero notevoli – His’n’Hers (1994), Different Class (1995) e This Is Hardcore (1998) – con tanto di colorature vocali e birignao interpretativi equamente distribuiti fra David Bowie, Bryan Ferry, Marc Bolan e Steve Harley (Cockney Rebel).
Jarvis Cocker, © Daniel Cohen
Smorfiosamente narcisista da affrontare senza alcun timore reverenziale collaborazioni e camei assortiti – fra i tanti mi piace ricordare Sliding Through Life On Charm cucita impeccabilmente addosso a Marianne Faithfull (2002); l’inappuntabile rilettura di I Can´t Forget per il documentario Leonard Cohen: I’m Your Man (2005); I Just Came To Tell You That I’m Going, cover di Je suis venu te dire que je m’en vais per il tributo Monsieur Gainsbourg Revisited (2006), A Drop Of Nelson’s Blood per la compilation Rogue’s Gallery: Pirate Ballads, Sea Songs, And Chanteys prodotta da Hal Willner (2006) e l’ultimo, discotecaro singolo Straight To The Morning (2020) con gli Hot Chip – Jarvis Cocker debutta in solitaria con Jarvis (2006) per poi bissare, talvolta esasperare il proprio istrionismo da nerd-songwriter con Further Complications (2009) e lasciarsi andare nel 2017 al minimalismo con Room 29 (la stanza del Chateau Marmont sul Sunset Boulevard losangeleno) insieme al pianista Chilly Gonzales.
E arriviamo alla sua nuova band, chiamata Jarv Is … (chissà?, magari in un’overdose di autostima?) che in realtà nasce a fine dicembre 2017 con Serafina Steer (arpa, tastiere, voce), Emma Smith (violino, chitarra, voce), Andrew McKinney del James Taylor Quartet (basso, voce), Jason Buckle (synth, elettronica) e Adam Betts dei Three Trapped Tigers (batteria, percussioni, voce) in occasione del Norður og Niður Festival di Reykjavík curato dai Sigur Rós. Gruppo, a detta di Cocker, «concepito come un modo di scrivere canzoni in collaborazione con un’audience». In poche parole: i Jarv Is … iniziano a registrare i loro concerti così da poter monitorare lo sviluppo di ogni brano e la reazione (positiva o negativa che sia) del pubblico, fino a che Geoff Barrow (Portishead) suggerisce loro di non vanificare, bensì utilizzare, le incisioni come base per un ipotetico album. Sicchè Must I Evolve? e Sometimes I Am Pharaoh vengono registrate live l’8 aprile 2018 nella Peak Cavern, Derbyshire, mentre Children Of The Echo il 1° giugno 2019 al Primavera Sound Festival di Barcellona. Il resto di Beyond The Pale, incluse parti vocali e sovraincisioni, sboccia ai Narcissus Studios di Neasden, Londra, a giugno e a settembre 2019.
Jarv Is … , © Eddie Whelan
Vediamo, allora, se questi 7 pezzi per 40 minuti d’ascolto si spingono davvero “oltre il limite”. Ammesso e concesso che la verve compositiva di Jarvis Cocker è sempre, gaudiosamente e indistruttibilmente glam e art; e che il suo proverbiale esistenzialismo, oltre a palesarsi nei titoli di qualche canzone (Must I Evolve?, Am I Missing Something?, Sometimes I Am Pharaoh) rispecchia i logici dubbi di un quasi 60enne, il nuovo repertorio passa per così dire “di palo in frasca” con noncuranza (e non può che farci piacere, altrimenti che Jarvis Cocker sarebbe?).
Tant’è che piace eccome Save The Whale, con quel passo da bolero fra archi ed elettronica e quel declamatorio canto con vista Leonard Cohen e Serge Gainsbourg; e non può che sorprenderci l’ubriacante cavalcata pop-rock di Must I Evolve?, che fa di tutto per somigliare al main theme di un film hollywoodiano. Tutt’altri umori, invece, scandiscono Am I Missing Something? e House Music All Night Long: gingilloso technopop e voce à la Bob Geldof per il 1° brano; aperture orchestrali, chitarra modello Shaft, melodia che “più la mandi giù e più ti tira su“, intonazione che stavolta è quella di Steve Harley per il 2°. Che dire poi dei suoni industrial e del retrogusto di Gary Numan inscatolati dentro Sometimes I Am Pharaoh?. L’esatto opposto della bisbigliante Swanky Modes e delle sue atmosfere jazzy; l’antitesi più logica di Children Of The Echo, con i suoi avviluppanti psichedelismi. «Questo non è un album dal vivo. È un album vivo», ha sentenziato Mr. Cocker. Malgrado l’ego smisurato, difficile dargli torto.