Una volta immerso in un libro, qualsiasi lettore (anche uno caotico come me) può fare di tutto: far finta di non sentire tutto quello che accade intorno a sé; prendere appunti; fermarsi per tornare indietro e rileggere un periodo particolarmente significativo; o per meditarci sopra, etc. Tra i molti diritti di chi legge c’è anche quello di lasciarsi andare a divagazioni d’ogni genere. Proprio da questo assunto sono partito per concepire In Margine, che in ogni puntata dedico a un solo libro e a tutti gli strani sentieri che percorro durante la lettura.
La prima scelta forse è stata dettata dal caso. Forse… Di una cosa però sono certo: di Julia Kristeva ho letto pochissimo, ma la mia curiosità nei suoi riguardi era molto forte e altrettanto frenata dal dubbio di non essere abbastanza preparato per affrontarla. Questa scrittrice bulgara, linguista, psicanalista, romanziera, legata agli ambienti della più raffinata “intellighenzia” parigina, m’intimoriva un poco. E a ragione. Così mi sono detto: cominciamo da una biografia, cerchiamo di capire chi è, come presenta le sue esperienze, i suoi lavori; e magari dopo mi sentirò pronto a calarmi dentro i suoi libri (tutt’altro che facili). C’era del buon senso, ma anche molte illusioni.
La vita della Kristeva, nata durante la Seconda Guerra Mondiale e cresciuta nel clima opprimente di un regime satellite dell’Impero Sovietico, mi fa pensare a un fiume eternamente in piena. E davvero un fiume in piena è lei stessa che si racconta, stimolata dalle domande dell’intervistatore Samuel Dock. Studentessa brillante, ribelle e competitiva, comincia da giornalista seppur guardata con sospetto dagli esponenti del Partito Comunista. Arriva a Parigi nel Natale del 1965, senza un soldo ma già informatissima e ambiziosa. In breve tempo, entra in contatto coi principali protagonisti della formidabile stagione che precedette il Maggio ‘68 (Roland Barthes, Michel Foucault, Jacques Derrida, Jacques Lacan e molti altri) e si inserisce nella redazione di Tel Quel, la celebre rivista diretta dal romanziere e critico Philippe Sollers.
A questo punto ci sono già per me motivi per immedesimarmi nelle sue esperienze e confrontare la sua gioventù con la mia. A dire la verità, io ero uno studente pigro e distratto; ribelle sì, ma timido e privo di metodo. Non sopportavo i compagni secchioni e conformisti, ma ammiravo quelli più intelligenti di me e cercavo di seguirne (con poco successo) l’esempio. Provo a immaginare Julia come fosse una compagna di liceo: è terribilmente affascinante, anche se un po’ mi irritano la sua sicurezza e la sua grinta. La prima molla che mi spinge a simpatizzare è la straordinaria curiosità (lei dice “il mio vizio”, io penso “anche il mio”). Però lei neanche mi vede, guarda troppo lontano…
Il giornalismo per lei è solo la prima tappa. La seconda è la linguistica. Entra in contatto con il grande Emile Benveniste, «il primo linguista a studiare il posto del linguaggio nell’inconscio»; ma quando confida all’anziano maestro di voler diventare psicanalista, Benveniste le dice con dolcezza: «Piccola mia, sono tutti pazzi e lei non è pazza, che ci farà là in mezzo». Nonostante l’allerta, Julia affronta con successo anche la terza tappa: la psicanalisi. Accanto alle esperienze professionali, vive con altrettanta intensità le vicende private, le tante passioni giovanili, il matrimonio con Sollers, la nascita del figlio David (afflitto da una grave malattia neurologica), l’impegno anche politico a favore dei portatori di handicap. Tutto si trasforma in libri: saggi e romanzi che le portano premi prestigiosi e notorietà internazionale. In famiglia, dove regna una sana ironia, dicono che Julia è una star. Ma quello che conta per lei è ben altro… La biografia di questa donna eccezionale, che per realizzarsi si è sradicata dalla sua terra e dalla famiglia originaria e per impegni di lavoro si sposta spesso in capo al mondo (Stati Uniti, Cina, Scandinavia), mi porta a riflettere su una serie di domande capitali (tutte ispirate dalla complessità del suo pensiero): Che cosa è l’impegno politico e professionale senza “prendersi cura” degli altri? Che cosa è la battaglia femminista senza approfondire il significato della maternità? Che cosa è il riconoscimento dei diritti dell’uomo senza riconoscere il diritto alla singolarità? Che possibilità ci sono di vincere le “nuove malattie dell’anima” senza battersi contro gli orrori della rete, della globalizzazione e del nichilismo di qualsiasi genere di terroristi? Come può la cultura salvare la nostra specie e il nostro pianeta se non trova le forze per rifiutare un’industria culturale che vuole trasformare il lettore in uno spettatore consumista? Che forza può avere il pensiero laico se perde il senso del sacro?
Forse sto esagerando. Ma è così che si esce dalla valanga di parole e di esperienze che ci rovescia addosso questa intellettuale senza confini, alfiere dell’intertestualità, nella sua conversazione autobiografica. Julia Kristeva comunque non chiede certo di essere messa su di un piedistallo. Il suo linguaggio di donna colta e battagliera può provocare momenti più o meno empatici, ma alla fine resta ancora la ragazza straniera che approda in una Parigi affascinante e difficile e sente tutto il peso dell’estraneità. Così mi sembra naturale che a tutt’oggi confessi: «Non riesco ad abitare la “mia” immagine, quella che gli altri mi restituiscono; io mi vedo come in viaggio: il mio elemento potrebbe essere l’acqua viva e il mio scopo seguire questo flusso». Non a caso il titolo originale di questo libro è Je me vojage. Mémoires. Questa straniera, questa viaggiatrice può dare ancora molto a un’Europa disorientata. Un’Europa che ha bisogno di buoni cervelli che si prendano cura di lei.
Julia Kristeva, La vita, altrove. Autobiografia come un viaggio. Conversazione con Samuel Dock, Donzelli Editore, 262 pagine, € 20.40
Foto: © Jean-Luc Bertini