Il suono di una canzone di Jannacci mi giunge smorzato all’orecchio. Tuttavia non ho difficoltà a riconoscerlo. Volgo il capo a cercarne l’origine e intravedo nell’erba, pochi metri più in là, l’antenna di una radiolina luccicare. Sono qui sul greto dell’Adda a bruciarmi nel sole. Oltre l’argine c’è una spianata brulla circondata da un rado boschetto di pioppi. Sulla destra sorge una trattoria di campagna, uno di quei posti dei quali si è quasi perso il ricordo, dove puoi ancora gustare dell’ottima frittura di pesce ancora bagnato dell’acqua del fiume.
Le parole della canzone si srotolano nella musica e le mie orecchie catturano l’ultima che entra veloce nell’affollato mondo dei ricordi. Barbone è la parola. È la storia del barbone innamorato, la cui figura di esponente di un mondo dimenticato riesce in qualche modo a salire fortunosamente a bordo di un’automobile sportiva, decappotabile, per la prima volta nella sua vita e poi se ne va a morire in un lercio buco tra le case della città ignorato da tutti e coperto da fogli di giornale. Per quanti non hanno memoria di questa figura basta camminare a ritroso nel tempo per ritrovarla.
Da allora, pian piano, in sordina, il barbone se n’è andato. Altre figure hanno preso il suo posto sul palcoscenico della vita, personaggi più aderenti ai tempi. Il barbone era, per sua intrinseca natura, un ostinato ribelle insofferente ad ogni legame o imposizione che gli veniva da una società sostanzialmente nemica alla quale, fatalmente, ha dovuto soccombere. Troppo debole per reggere a un iniquo confronto. L’evoluzione lo ha presto fagocitato, lo ha quasi cancellato da un facile ricordo. La grande città nel suo perpetuo rinnovarsi non regala spazio a coloro che non si adeguano rapidamente alle sue esigenze.
Il mio amico barbone viaggia ora nell’oblìo. C’è voluta un’accorata canzone di Jannacci che mi è capitato accidentalmente di udire per farmelo ricordare. Una semplice canzonetta più labile di un marmetto al cimitero! Quali sono state, se c’erano, quali le cause che hanno sanzionato l’incompatibilità tra questa figura, così innocua, e la società? Come mai civiltà e progresso sono giunti al punto di eliminare i barboni quando oggi esistono e prolificano categorie di individui ben peggiori che vivono da reietti ai margini delle grandi città?
Parassiti, mendicanti, asociali vari continuano a riprodursi e vengono tollerati e mantenuti dalla società e il genuino barbone di un tempo ancora recente è stato ormai quasi cancellato dal ricordo. Al contrario, la società ha magnanimamente permesso la sopravvivenza di ricoveri, dormitori, elemosine e altre provvidenze di vario genere riservati agli ultimi del mondo. Forse il solo motivo valido che ha decretato la fine del barbone risiede proprio in questo dettaglio. Infatti, mentre i disperati più diversi esistono e forse esisteranno solo perché dimostrano il loro continuo bisogno di aiuto dalla società, il barbone ha sempre apertamente dimostrato una totale indipendenza da ogni forma di struttura sociale preferendo morire assiderato nell’inverno di una panchina nel parco piuttosto che essere ospitato in uno di quei pietosi ricoveri, non ha mai steso la mano e ha sempre evitato, per quanto possibile, il bisogno dell’aiuto di altri esseri umani.
Un passante cammina lungo il marciapiede. Un mendicante semi-sdraiato sul cemento stende la mano e gli chiede l’elemosina. Il passante si ferma, fruga nelle tasche e rintraccia qualche moneta che generosamente lascia cadere nel palmo proteso. Un rapido sguardo sulla figura al suolo e si allontana.
Lo stesso passante, qualche tempo dopo, incrocia per la strada un altro barbone. Curvo, la barba lunga e incolta, i capelli che gli calano disordinati sulle spalle. Indossa tutto il suo guardaroba: un cappotto sporco e consunto sopra una giacca altrettanto logora e, in luogo di una camicia, una maglia di lana pesante dimentica di acqua e sapone. I pantaloni, stazzonati e unti, ciondolano a mezza altezza sopra le scarpe, da tennis, più nere che bianche e senza lacci. In una mano regge una borsa dalla quale straripano oggetti i più eterogenei. Cammina lentamente, rasente al muro e parla ininterrottamente a mezza voce.
Il passante si ferma, lo osserva e fa il gesto d’infilarsi una mano in tasca. Cerca di farsi notare dal barbone affinché quegli si volga e accetti l’elemosina. Ma, accorgendosi che l’oggetto della sua beneficenza non lo degna di una sola occhiata, desiste, imbarazzato dal suo stesso gesto, si gira e muove altrove, non senza un palese gesto di stizza.
Ricordo che, avrò avuto circa dieci anni, uno degli alberghi dove scendevano parecchi barboni era una vecchia villa diroccata dove poi costruirono il Palace Hotel. Di quella villa non erano rimasti in piedi che i muri perimetrali e le cantine, alle quali si accedeva attraverso un passaggio scavato tra le macerie. Essi, i barboni, vi si raccoglievano la notte per dormire, oppure nel pomeriggio per lavorare. Sedevano per terra e cominciavano a infilare le mani nelle numerose tasche del loro guardaroba portatile, estraendone manciate di mozziconi di sigaretta raccolti durante la giornata. Separavano la carta dal tabacco che impilavano sopra pagine di vecchi giornali. Questo tabacco di recupero veniva poi rivenduto ad altri poveracci, che magari non erano neanche barboni, i quali ne ricavavano, in genere, tabacco sciolto per pipa.
In un gruppo di amici facevamo, di tanto in tanto, delle avventurose spedizioni alla villa dei barboni attratti più che altro dal mistero, presente soltanto nella nostra fantasia, che aleggiava intorno a quella gente. Scendevamo generalmente nelle viscere della bicocca verso le prime ore del pomeriggio, quando gli inquilini erano ancora fuori intenti alla raccolta delle cicche. Nell’incerta luce che filtrava tra le macerie s’intravedevano qua e là parecchi giacigli fatti di stracci e vecchi giornali. Ci aggiravamo più spauriti che guardinghi, schiacciati uno sull’altro, aspettandoci di scoprire, da un momento all’altro, qualcosa di misterioso e terribile. Rimediavamo, invece, sbucciature alle ginocchia e qualche maglietta strappata. Lasciavamo sempre un compagno di guardia all’esterno con il compito di buttarci un fischio non appena il primo inquilino appariva in fondo al prato antistante la villa. Nella bella stagione lavavano i loro stracci nelle fontane e nei Navigli. Poi li stendevano al sole dove capitava facendosi poi un pisolo nell’attesa che il bucato si asciugasse. Quand’erano in forma facevano anche il bagno. Il controllo dei vigili, allora, non era accurato come oggi.
Ne avevamo conosciuto uno meno scorbutico degli altri che ogni tanto si lasciava scappare qualche parola. Frequentava i giardinetti della Benedetto Marcello e sedeva abitualmente su una panchina di fronte alla grande fontana. Faceva il bucatino, un tonificante pediluvio e infine si appisolava al sole. Parlava da solo e, nel sonno, gestiva animatamente. Aveva tanti capelli bianchi e due rughe profonde che gli solcavano le guance. Tuttavia, ciò che più colpiva di lui erano gli occhi, grandi e lucidi. Lo avevamo soprannominato D’Artagnan per via dei baffi e la barba che gli davano un po’ l’aria del moschettiere.
Un episodio al quale partecipai in veste da protagonista contribuì a radicare in me l’idea dell’enorme importanza che le parole libertà e indipendenza rivestivano agli occhi e nell’animo dei barboni. Già frequentavo il secondo anno delle superiori. Un pomeriggio, i libri sotto il braccio, aspettavo il tram con la mia bella sigaretta tra le labbra. Un barbone mi si avvicinò spedito. Era piuttosto giovane e cominciò a osservarmi con insistenza. Al momento non capii che cosa lo interessasse di me e fui preso da un certo nervosismo. Poi, dalla direzione dei suoi sguardi capii che l’oggetto della sua attenzione non ero io, ma ciò che tenevo tra le labbra. La sua intenzione pensai che fosse quella di raccogliere il mozzicone ancora acceso non appena lo avessi gettato al suolo.
In un gesto d’irrefrenabile generosità gli stesi la mano con la sigaretta accesa ferma tra due dita.
Ebbe un istante di esitazione. Il suo sguardo, attonito e sospettoso, passò più volte dalla mano tesa ai miei occhi. Infine si decise. Accettò la sigaretta e si volse scappandosene in fretta. Lo osservai allontanarsi e lo vidi chiaramente scontento. Allora capii che avrebbe preferito raccogliere il mozzicone da terra e farsi delle belle boccate in libertà. L’avere accettato qualcosa dalle mani di un altro gli aveva tolto il piacere di farsi una libera fumata. Si era invece umiliato trovandosi nella posizione di un accattone!
Fra i romanzi di Sergio Cioncolini pubblicati da Pendragon ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018), Danni collaterali (2019) e Vacanza di sangue (2020).